Valerio Massimo Visintin è un cronista gastronomico che svolge da 25 anni la sua professione in incognito e che vive ai limiti della paranoia pur di garantire imparzialità e pertinenza di giudizio sia ai ristoratori sia ai suoi lettori. Anche quando si presenta in pubblico per presentare i suoi libri, non è possibile scorgere dettagli dell’aspetto fisico, nemmeno il colore degli occhi. Da sempre in forze al Corriere della Sera, specialmente per l’inserto ViviMilano, e con alle spalle oltre 5000 recensioni, Visintin si distingue dalla maggior parte dei suoi colleghi anche per la lingua, tanto sensibile quanto tagliente: le sue cronache di fatti alimentari sono complete e puntuali, servite con destrezza critica e condite da un’ironia fendente. Insomma, un recensore mascherato amato dai lettori e temuto dai ristoratori per via delle numerose e mordaci stroncature. Lo abbiamo incontrato in occasione dell’uscita del suo ultimo libro “Cuochi sull’orlo di una crisi di nervi” e ci ha raccontato, in tipica tenuta da Zorro nonostante il caldo afoso, la sua Milano del food e i cambiamenti che l’hanno vista protagonista negli ultimi anni.
Ci racconti l’epocale passaggio dalla Milano del cibo alla Milano del food.
Vero che Milano è sorgente di tutte le mode, comprese quelle più fesse. Ma nel caso del food, non ha colpe dirette. La mutazione genetica è stata coltivata in provetta, nella ribollente virtualità del web, prima di proliferare sul territorio. Senza la pandemia dei siti dedicati, senza i foodblog, senza quell’alta marea di comunicazioni enfatiche e proclamatorie, saremmo ancora al tempo dei cuochi e del cibo. Certo, Milano ha innescato lo star system degli chef tenendo a battesimo le prime baracconate del fuff, un paio di lustri fa. Li chiamano pomposamente “congressi”. Sono, in verità, fiere di esibizionismo in camice bianco, sostenute da un comitato di sponsor e dalla benevolenza pelosa di autorevoli miei colleghi. Stanno al servizio della cultura gastronomica come Shylock sta alla beneficenza.
Chi sono i protagonisti di questo nuovo mondo?
Tutti. La chiave dell’espansione sta proprio nel protagonismo collettivo. Sono tutti potenziali primattori: non soltanto i benedetti chef, ma anche i critici gastronomici, le fuffblogger, i marchi aziendali, i sommelier, le botteghe “gourmet”. Ipnotizzati da questa prospettiva, ci si arrabatta a qualunque costo, con eroico sprezzo dell’etica, per conquistare una porzione di palcoscenico.
Quali sono oggi i trend e i fenomeni della ristorazione tipicamente milanesi che trovi più divertenti?
Me ne vengono in mente due. Entrambi dipendenti da una corruzione del lessico. Perché il linguaggio non si limita a registrare la realtà, ma la anticipa e spesso la traina, bombardandoci di slogan e ripetizioni. Il primo è la proliferazione di quello che chiamano street food. Circostanza paradossale, dato che, per ragioni climatiche e caratteriali, non vi è nulla di più alieno alle abitudini milanesi che mangiare per strada. Pertanto, se c’è qualche sgabello, si fa a gara per contenderselo. Se la bottega è grande come uno sgabuzzino, ci si spalma contro i muri dei palazzi per cercare un istintivo riparo. E per ingurgitare cosa? Bocconi mediocri, confezionati svogliatamente, a prezzi d’eccellenza. Il secondo fenomeno, invece, si lega al termine “gourmet”. Un’etichetta grammaticalmente impropria. Poiché viene assegnata al cibo e non a chi lo consuma. Ciò nonostante, è una formula magica. Qualsiasi ciofeca diventa squisita se è detta gourmet.
E quelli inconcepibili?
Temo non sia inconcepibile, ma è certamente inaccettabile l’espansione progressiva della malavita organizzata dietro le quinte dei nostri ristoranti. È un trend che fa paura. Ma non è per timore che i miei colleghi di settore fingono di non vederlo. Voltano il capo da un’altra parte per convenienza spicciola e meschina, per non sciupare il giocattolo che hanno tra le mani.
Parliamo di chef…
Gli chef sono quelli che innovano, destrutturano, reinterpretano. Quelli che, se non ti piace una loro creazione, ti spiegano perché ti stai sbagliando. Quelli che straparlano in pubblico di qualsiasi argomento, specialmente se non ne sanno niente. Quelli che si appuntano al petto le medaglie dell’alta cucina e della qualità, mentre fanno la réclame a prodotti di larga produzione industriale. Quelli che citano i grandi dell’arte e della letteratura come se fossero compagni di merende. Quelli che non si fanno mai trovare nelle cucine dei ristoranti, perché sono in tournée per “markette” e “showcooking”. Quelli che piangono se la Michelin gli strappa una stellina. Tutti gli altri, invece, sono cuochi e hanno tutta la mia stima.
A Milano ci sono più di 6000 attività legate alla ristorazione e per gli amanti del cibo a caccia di nuovi (e vecchi) stimoli c’è a disposizione una gamma di scelte sconfinata. Finora, però, abbiamo dato solo “cattive” notizie. Quali sono le buone?
Per fortuna, ce ne sono. È maturata, per esempio, una certa consapevolezza nella scelta delle materie prime. C’è maggiore attenzione agli equilibri alimentari, alla genuinità dei prodotti, alla tutela della salute. E, sorprendentemente, si stanno abbassando (sia pure con lentezza) i prezzi medi.
Dal tuo ultimo libro emerge il desiderio di produrre più recensioni positive. E’ ora di lanciare un appello ai ristoratori milanesi affinché ti semplifichino la vita? Aiutali ad aiutarti.
Spero che Steve Jobs non si risenta. Prendo in prestito un suo logoro monito (se ne avesse immaginato l’abuso, non se lo sarebbe mai lasciato sfuggire): “Siate affamati e siate folli”. Ecco. Va inteso, però, alla rovescia. È bene che i ristoratori non siano affamati. Che non si lascino prendere dalla’ingordigia di incassi immediati; che conducano con pazienza e con lealtà le loro creature. E, mi raccomando, non siate folli. Occorrono, al contrario, saggezza, calcolo commerciale, programmazione, rispetto della clientela.
Qual è a tuo avviso l’operazione di “food marketing” meglio riuscita a Milano?
Un caso per molti versi paradigmatico è quello di “Trippa”, ristorante in Porta Romana. Prezzi bassi, cucina rudemente popolare, ambientazione a simulacro di una vecchia Milano da cartolina, giovanotti piacioni in sala, amicizie con fuffblogger e operatori assortiti del mondo del food. È un locale di medio cabotaggio assurto a un affollatissimo successo sulla base di una perfetta operazione di marketing più o meno consapevole e artata. Ma è anche il sintomo di un territorio commerciale che ha perduto se stesso. E che non trova un’identità credibile e radicata. Ma ne compone la caricatura.
Nel mondo della ristorazione milanese stiamo assistendo ad una fase di caos alla quale seguirà un assestamento oppure questa dimensione di proliferazione frenetica di trend e sperimentazioni è già la nuova identità di Milano?
Difficile dirlo. Certo qualcosa dovrà cambiare in un futuro non lontano. Perché Milano non può reggere in eterno l’urto di una simile inflazione di insegne.
Un noto presentatore televisivo ti chiederebbe se mangi per vivere o se vivi per mangiare. A noi basta sapere qual è stata l’occasione in cui hai più fortemente amato il tuo mestiere e perché.
Non credo di poter isolare una singola occasione, legata a un ristorante, a un piatto al gusto speciale di una serata. Spendo le energie che ho sul mio lavoro con lo stesso entusiasmo e la stessa rabbia dei primi giorni, a prescindere dal tavolo che mi ritrovo davanti. E se spesso mi avvelena l’impressione di svolgere un mestiere inutile, – specialmente quando lo vedo vilipeso dalla maggior parte dei miei colleghi – è proprio per amore.
Altrimenti, non metterei a repentaglio la mia salute (a un girovita umano ho rinunciato da tempo), mangiando simbolicamente due volte: per vivere e per sopravvivere. Dopo il mio ultimo giorno, spero che il Corriere accetti di scrivere in angolo di pagina il seguente necrologio : “Ci ha lasciati ieri in incognito il collega Visintin. Era talmente florido e sano, che è scoppiato di salute”.