Oggi voglio proporvi un viaggio tra mare, dolci colline e campagna. Un luogo magico dove potrete respirare la Storia con la S maiuscola! Destinazione la Maremma laziale e la Terra degli Etruschi, protagonista Tarquinia (VT), importante sito archeologico riconosciuto dall’UNESCO patrimonio dell’Umanità, che custodisce molti segreti ma uno, in particolare, che pochi conoscono e che vi racconterò tra poco.
A Tarquinia ho dedicato diversi speciali televisivi perché è un angolo del nostro Paese, carico di magia e fascino, che richiama viaggiatori da secoli. Oltre alla Necropoli con le sue emozionanti Tombe dipinte, il Museo Archeologico Nazionale tra i più importanti al mondo per il periodo etrusco, basti ricordare i celebri Cavalli Alati rinvenuti sull’Ara della Regina, alla Civita, il quattrocentesco ed elegante Palazzo Vitelleschi che ospita il Museo, l’antica Cattedrale dedicata a Santa Maria in Castello iniziata nel 1121 e ultimata nel 1208, uno dei simboli della città (che io considero una delle dieci Cattedrali più belle al mondo), le sue Torri, la Riserva Naturale delle Saline. Per i più curiosi segnalo il dialetto locale legato ad una eredità linguistica originata dalla dominazione francese che ancora oggi si può cogliere in alcune espressioni dove il plurale maschile diventa plurale femminile generando, in qualche caso, veri e propri equivoci (i fuochi – le foche; i tetti- le tette, gli zoccoli … i fichi … può bastare così!).
Ma è ora che vi sveli il segreto gelosamente custodito presso la benemerita Società Tarquiniense di Arte e Storia, nel cuore del centro storico della città. Nella cartella n.749 dell’Archivio sono conservati due preziosi frammenti del velo con spille d’oro appartenute a Madame Letizia, madre dell’Imperatore Napoleone Bonaparte. Ma da dove vengono quei veli?
La storia comincia dopo la sconfitta di Waterloo, quando Madame Letizia, si ritirò a Roma a Palazzo Rinuccini, oggi Bonaparte, situato all’angolo fra Piazza Venezia e Via del Corso. Qui Letizia si spense nel febbraio del 1836. Spaventato da possibili moti bonapartisti e giacobini, il Governo pontificio, sotto la pressione degli ambasciatori d’Austria e di Francia, le negò una degna sepoltura a Roma.
Il feretro della madre dell’Imperatore, dopo una frettolosa e guardinga benedizione in Santa Maria di Via Lata, venne infine deposto su un lugubre carro senza insegne e trasportato a Tarquinia (allora Corneto) per volontà del Cardinale Fesch, fratello della defunta e, quindi, zio di Bonaparte che lo volle tumulare nel Convento cittadino delle Monache Passioniste. Dopo tre anni anche il Cardinale volle essere sepolto lì, vicino alla sorella. I tempi erano però mutati. A Parigi non c’era più un re, ma un nuovo Imperatore, Napoleone III, nipote del famoso còrso e dunque pronipote di Letizia che tanto peso avrà nell’Unità d’Italia e che desiderava una degna e francese sepoltura per la sua cara nonna. Su spinta del Governo francese, che era il difensore principale dell’indipendenza dello Stato della Chiesa, nel 1851, a Tarquinia/Corneto giunse una delegazione proveniente dalla Corsica, guidata dal sindaco di Ajaccio, Dominique Zevaco, per riconoscere e prelevare il corpo di Donna Letizia.
L’indomani, i due feretri vennero adagiati tra pesanti teli di velluto su un carro d’artiglieria francese e, scortati da un drappello di dragoni napoleonici, portati nella Cattedrale di Civitavecchia. Qui si svolse un solenne rito funebre per poi essere caricati a spalla da marinai francesi sul vascello che salpò dal porto per Ajaccio sulle note della Marsigliese, salutati dai colpi a salve dei cannoni del Forte Michelangelo, per essere poi tumulati nella Tomba Imperiale della città francese.
Cosa resta di tutta questa complessa storia a Tarquinia? Una lapide in ricordo del tumulo e, soprattutto i due delicatissimi frammenti del velo di Donna Letizia. Averli potuti addirittura toccare, dopo tutta la ricostruzione storica, mi ha dato veramente una sensazione particolare, come se le vicende della famiglia Bonaparte si concentrassero in pochi centimetri di velo arricchito da spille d’oro. La risposta ci fa tornare al momento in cui i dignitari francesi, al cospetto delle famiglie aristocratiche di Tarquinia/Corneto, arrivarono in città e, prima di prelevare i nobili resti, decisero di controllare lo stato dei corpi. Scoperchiata la bara, con grande sorpresa, il corpo di Donna Letizia apparve intatto, con il volto incorniciato da una cuffietta di raso chiaro. Era coperto dalla testa ai piedi da un velo di blonda tempestato di fiocchetti dorati. Fu un momento memorabile: stupiti da questa scoperta, i nobili e i dignitari francesi, fecero a gara per prenderne ciascuno un lembo. Insomma il velo si lacerò in tante piccole parti finite chissà dove. «Fortunatamente alcuni brandelli erano stati preservati insieme ad altri cimeli tra cui due foglie d’alloro tratte dalla corona deposta sul feretro di Vittorio Emanuele II da una delle famiglie nobiliari cornetane, di cui la Società Tarquiniense di Arte e Storia custodisce i documenti» – come ci racconta l’archeologa Alessandra Sileoni, Presidente della STAS – «Il ritrovamento del velo ha stimolato studiosi e ricercatori ad approfondire la memoria storica locale, e in tal caso orgogliosamente le relazioni che vi furono tra l’Italia e la Francia in quel particolare frangente. Questo a testimonianza di come il nostro archivio sia ancora oggi una fucina inesauribile di informazioni».