Un quinto della popolazione mondiale ne fa l’ingrediente-base della propria alimentazione. Per quasi tre miliardi e mezzo di persone, in tutto il pianeta, a tutt’oggi rappresenta il 20% delle calorie assunte giornalmente, ma nei Paesi più poveri dell’Asia questa quota arriva a superare anche il 50%. Ce n’è abbastanza insomma per poter affermare che il riso è un elemento-chiave della nutrizione umana.
Ovviamente, il suo consumo varia da Paese a Paese, con picchi altissimi nelle aree asiatiche, dove il consumo pro-capite ammonta a oltre 100 kg all’anno e trend più bassi nel resto del mondo: in Italia, ad esempio, si attesta sui 5,6 Kg/annui a fronte di un consumo di pane che invece è pari a 66 Kg l’anno a persona. Nella storia, il riso ha sempre camminato di pari passo con l’uomo, adattandosi a ogni ambiente e a ogni necessità dei diversi popoli che ne hanno fatto uso, tanto che la Fao lo definisce staple food per sottolineare il fatto che sia uno dei più importanti alimenti della civiltà umana. Per l’Italia, che ne è il maggiore produttore europeo, questo cereale rappresenta indubbiamente una coltura strategica.
Diecimila anni di selezione. Tra i primi cereali domesticati dall’uomo – circa 10-12 mila anni fa, a partire da una specie spontanea cinese –, il riso subì una prima selezione già da parte dell’uomo preistorico che scelse le piante che presentavano spighe più resistenti. La diffusione delle piante di riso fu da subito ampia, soprattutto nelle valli fluviali della Cina, ma per il passaggio da una specie erbacea infestante a bassa resa a una pianta domestica capace di fornire una fonte essenziale per il nutrimento dell’uomo, dobbiamo aspettare l’avvento dei primi agricoltori. Il riso attuale, appartenente alla specie Oryza sativa L., venne domesticato probabilmente una sola volta tra 8.200 e 13.500 anni fa in Cina a partire da una specie di riso selvatico (Oryza rufipogon). Dalle valli cinesi la coltivazione raggiunse il Vietnam, l’India, lo Sri Lanka e le Filippine durante il secondo millennio a.C., l’Indonesia circa nel 1500 a.C. ed entro il 100 a.C., il Giappone. Dall’India venne quindi introdotto in Grecia e, attraverso la Sicilia, si diffuse nel Mediterraneo e nel Nord Africa. La prima osservazione confermata storicamente della presenza di riso coltivato in Italia è del 1475 come indicato da due lettere del duca Galeazzo Maria Sforza che autorizzano l’esportazione dal ducato di Milano di 12 sacchi di riso da semina verso Ferrara. In quegli anni evidentemente la produzione di riso era presente in Lombardia, Piemonte e Veneto, regioni in cui ancora oggi si concentra la maggior parte delle nostre produzioni. È tuttavia probabile che questa coltura fosse presente in Italia anche prima di tale data. Sono questi gli anni in cui il percorso del riso si interseca sempre più con la storia dell’uomo che seleziona le varietà più idonee, migliora i raccolti e le tecniche di propagazione.
(Non) ne resterà uno solo! Ma quando parliamo di riso a cosa ci riferiamo? Alla base vi sono principalmente due specie: l’Oryza sativa, il riso asiatico, di gran lunga la più diffusa e importante; e l’Oryza glaberrima, di origine africana, non molto diffuso, ma utilizzato spesso per incroci con altri tipi di riso. Accanto a queste due specie principali ne esistono almeno altre 23 selvatiche, di cui solo alcune sono strettamente imparentate con Oryza sativa e Oryza glaberrima, i “veri” risi. A sua volta Oryza sativa (la specie più diffusa) presenta diverse sottospecie: le principali sono Indica, caratterizzata da un chicco lungo e sottile e ampiamente diffusa nei climi tropicali (Cina Meridionale, Filippine, India, Europa meridionale, Usa meridionale), e Japonica, più adatta per coltivazioni in climi temperati e caratterizzata da un seme corto arrotondato. Quest’ultima sottospecie è ampiamente diffusa in Paesi come Giappone, Corea, Cina settentrionale, Brasile, Usa, Egitto, e nella maggior parte delle nazioni europee, inclusa l’Italia. Esistono poi varietà di riso che si sono adattate alla sopravvivenza in acque profonde, i cosiddetti deepwater rice: cultivar in grado di crescere oltre i 50 cm di profondità (si arriva anche a superare il metro), la maggior parte delle quali deriva dalla sottospecie Indica. Queste varietà (diffuse in Bangladesh, Myanmar, Cambogia, Vietnam, Tailandia e alcune zone dell’India) sono molto interessanti per le particolari modifiche fisiologiche che hanno subito al fine di adattarsi allo stile di vita sommerso, esempio lampante di come l’universo del riso sia caratterizzato da grande biodiversità che si traduce in percorsi differenti lungo le filiere produttive prima di raggiungere la tavola.
La salute vien mangiando. Oryza sativa è dunque la specie coltivata su circa il 95% della superficie risicola mondiale. Ma, a fronte di un’unica specie, l’uomo ha selezionato migliaia di cultivar adattate alle diverse aree geografiche. Ad oggi, le varietà di riso coltivate nel mondo sono migliaia e differiscono dal punto di vista nutrizionale nel contenuto di vitamine, amminoacidi essenziali… Caratteristiche alle quali contribuiscono anche i trattamenti subiti dopo la raccolta. Quale riso, quindi, si addice maggiormente alla dieta delle diverse popolazioni tenendo conto sia delle esigenze nutrizionali sia delle eventuali concomitanti condizioni patologiche (come ‘’diabete di tipo 2’’ e obesità)? Le diverse varietà sono inoltre adatte per cotture specifiche e differenti e questo è strettamente connesso alla struttura del seme-frutto di riso, alla componente zuccherina ma anche a quella proteica. Le cultivar di riso vengono classificate in 4 categorie: Indica, Japonica, Aromatica e Glutinosa. Questi gruppi non vengono considerati realmente equivalenti né da un punto di vista agricolo, né da un punto di vista alimentare; le diverse cultivar, anzi, hanno dinamiche commerciali differenti e non è anomalo osservare variazioni opposte nei prezzi sul mercato. Tra le principiali differenze, il contenuto in amilosio e amilopectina (polisaccaridi del glucosio): l’amilosio è digerito molto più lentamente dell’amilopectina, dunque più è alta la sua percentuale, più basso è l’indice glicemico (IG) del riso. Dal momento che è importante evitare picchi troppo elevati della glicemia dopo i pasti, bisogna fare molta attenzione alla grande variazione degli IG di varietà diverse di riso. L’IG, inoltre è influenzato dal tempo e dal tipo cottura (un riso cotto al dente presenta un indice glicemico più basso dello stesso riso cotto per tempi lunghi), oltre che dagli altri alimenti che sono presenti nel piatto di riso. Ci sono anche molti esperti che consigliano il consumo di riso integrale, perché più ricco di acidi grassi essenziali, ferro, calcio, fosforo e di vitamine, soprattutto “E”, che rendono questo prodotto decisamente migliore, dal punto di vista nutrizionale, rispetto del riso brillato (cioè già ripulito e lavorato). Come anche il parboiled, ovvero il riso grezzo sottoposto a uno speciale processo di precottura che ne riduce la collosità e aumenta la resistenza alla cottura del seme favorendo la solubilizzazione delle vitamine e dei sali, aumentando il potere nutritivo del chicco. Diverse varietà di riso, infine, presentano chicchi neri e rossi dovuti alla presenza di composti antiossidanti – come il riso Venere, cultivar prodotta recentemente in Italia incrociando rare cultivar di riso nero cinese con delle varietà italiane – e possono dunque avere effetti salutistici nel controllo dello stress ossidativo.
Chicco, il futuro è… sostenibile. In molte nazioni in via di sviluppo, il riso è considerato l’elemento chiave per garantire un’autosufficienza alimentare della popolazione. Per queste ragioni, negli ultimi anni, le variazioni sulla disponibilità e sul prezzo del riso hanno generato molte preoccupazioni. L’International Rice Research Institute ha più di una volta sottolineato che sarebbe necessario produrre globalmente circa 8-10 tonnellate di riso in più, per mantenere il costo per tonnellata intorno ai 300 dollari e garantire così a tutti un accesso sostenibile a questo alimento. Come tutte le colture moderne, annuali e intensive, anche il riso è soggetto all’attacco di patogeni di diversa origine (virale, batterica, fungina) che sono in grado di compromettere in modo preponderante le rese produttive arrivando a determinare perdite medie del 20-30% se non del 50%. Il riso del futuro deve quindi fortificarsi sia a livello genetico che colturale per poter implementare la resa per ettaro; in tale contesto una stretta collaborazione tra ricerca scientifica, centri di breeding e produttori rappresenta la chiave essenziale per nutrire il pianeta in modo più efficiente nel rispetto della sostenibilità.
(hanno collaborato: Maurizio Casiraghi e Massimo Labra, con il contributo di Anna Marchetti, Paola Palestini e Carla Favaro)
Curiosità sul Riso
I Presidi Slow Food (di Maria Grazia Tornisiello)
Nel 2008 Slow Food, che da anni si occupa di difesa della biodiversità alimentare, ha creato un progetto d’identificazione, tutela e valorizzazione di “prodotti buoni”, i cosiddetti Presidi Slow Food. Tra questi, cinque sono stati attribuiti ad altrettante varietà di riso. In Italia il primato va al Vialone nano di Grumolo delle Abbadesse, in provincia di Vicenza, la cui coltivazione fu introdotta nel ‘500 dalle monache della vicina abbazia di San Pietro. Degli altri quattro Presidi Slow Food, due si trovano in Asia e più precisamente in Malesia e in India, uno in Madagascar e uno in Brasile. Il riso Bario viene coltivato nel nordest dello stato malese del Sarawak a un’altitudine di 1100 metri ed è impiegato per fare dolci e budini. Dalle valli indiane, a sud del Gange, arriva invece il profumatissimo Basmati, cucinato tradizionalmente con chiodi di garofano per esaltarne il sapore. Nato probabilmente dall’incrocio dell’autoctono riso rosso selvatico con il riso bianco giapponese giunto sull’isola verso l’anno 1000, l’Andasibe del Madagascar è ricco di vitamine e ha un sapore particolare, caratterizzato da note di nocciola. Infine, ultimo ma non certo per importanza, è il riso rosso brasiliano, originario dello stato di Paraiba e famoso per un maggiore contenuto di sali minerali e proteine rispetto al riso bianco.
Lungo, tondo, colorato, purché sia italiano… (di Riccardo Lagorio)
Arancini, risotti, minestre, timballi. Acquistate una scatola di riso ben sapendo quale sarà l’utilizzo finale, potendo scegliere tra le numerose varietà messe a punto nel nostro Paese attraverso incroci mirati, specie durante gli anni Venti e Trenta del secolo scorso. E grazie a quegli sforzi l’Italia è ancora oggi il Paese in Europa dove si produce una maggiore quantità di riso, riconducibile a circa 1 milione di tonnellate all’anno. Tra quelle più diffuse, il Balilla e l’Originario (dal chicco tondeggiante) servono per minestre e arancini; per timballi o riso in bianco sono preferibili il Sant’Andrea e il Roma, mentre per i risotti il Carnaroli, il Vialone nano e l’Arborio sono quelli più indicati in funzione di ciò che si vuole ottenere (risotto all’onda, paniscia o mantecati). Le aree a maggiore concentrazione sono nel Piemonte orientale (Vercelli, Biella, Alessandria e Novara), Pavia e Mantova in Lombardia, e Veneto (Verona e Rovigo, ma anche alcune zone del Vicentino). Senza dimenticare la Sibaritide in Calabria, il Ferrarese e un’ampia porzione del territorio bonificato durante gli anni del fascismo nell’attuale provincia di Oristano. Anche il riso può avere certificati d’origine tutelata dall’Europa, come accade per il vino. È il caso del riso di Baraggia Biellese e Vercellese Dop (la Baraggia è un particolare terreno che fu fondale marino, poi ghiacciaio e infine plasmato dal vento e dai fiumi. Qui le varietà a Dop sono Carnaroli, Baldo, Arborio e Sant’Andrea), del riso Vialone nano veronese Igp e del riso del Delta del Po Igp (dove si coltiva Volano, Carnaroli, Baldo e Arborio): 10 mila ettari in tutto sul totale di 219 mila coltivati a riso in Italia. Negli anni Novanta la capacità italica nel condurre gli incroci sul riso ha permesso di fissare le caratteristiche di risi dal colore nero (come il Venere e l’Artemide) e ramato (Ermes), anche profumati, consentendo di dare un tocco esotico e cromatico ai piatti preparati.
Anche la legge vuole la sua parte (di Riccardo Lagorio)
Non solo la biologia e la genetica contribuiscono a portarci in tavola il riso. In Italia vige infatti una legge che regge la materia dal 1958 e di cui si sta da tempo discutendo una possibile riforma. Essa fissa i criteri di riconoscibilità di ciò che acquistiamo distinguendo il riso in quattro categorie (comune, semifino, fino e superfino) in base alla forma che ha il chicco (tondeggiante, schiacciata, ellittica o affusolata). Ogni categoria è costituita da varietà che vanno specificate sulla confezione e che annualmente il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali stabilisce di concerto con quello dell’Industria anche in base alle evoluzioni scientifiche (come la creazione di nuova varietà, per esempio). Nella confezione sappiamo che c’è riso Carnaroli o riso Roma, insomma. La nuova bozza di legge vorrebbe dividere invece il mercato in due: il riso identificato da una delle denominazioni tradizionali (Arborio, Roma e Baldo, Carnaroli, Ribe, Vialone nano, Sant’Andrea, Originario, Padano e Rosa Marchetti) e il riso appartenente a tutte le altre varietà classificato secondo la più spiccia nomenclatura di riso medio, lungo e tondo e che si potrà distinguere per la sua attitudine in cucina, senza conoscerne la varietà specifica (per risotti, per minestre e così via). In virtù della nuova legge, il riso sarà vendibile in purezza ma anche in miscela (ciò che la legge del 1958 oggi, a tutela del consumatore, vieta espressamente). Il legislatore potrebbe quindi permettere di denominare “Arborio” anche le varietà simili (ciò varrebbe anche per tutte le altre varietà tradizionali), imponendo solo che l’Arborio autentico sia accompagnato dall’aggettivo Classico. Magra consolazione. Il riso rischia di perdere la propria identità…