Il marketing ci vende il cibo biologico come “naturale, sano, genuino, controllato e sostenibile”. Ma gli studi scientifici, le inchieste e le analisi sui punti deboli del sistema ci dicono invece che non è sempre così. Specie da quando la GDO l’ha trasformato in un business.
Più sano, più genuino, più ecosostenibile, più affidabile. Laddove per “sano” si intende più ricco di nutrienti (antiossidanti, polifenoli, vitamina C, minerali), per “genuino” coltivato senza il ricorso alla chimica, “ecosostenibile” perché prodotto con impatto zero sull’ambiente e “affidabile” perché certificato da organismi di controllo lungo tutta la filiera. I quattro punti di forza degli alimenti provenienti da agricoltura biologica – per definizione – sono questi, o queste almeno sono le caratteristiche che vengono “vendute” ai consumatori. I quali infatti, nei sondaggi, sostengono di preferire i prodotti bio perché li considerano «più sicuri, più salutari, più rispettosi del pianeta». Ma è davvero così? Da un’analisi un po’ più approfondita emerge che il quadro, in realtà, è un po’ diverso e che tutte le valutazioni del caso andrebbero fatte ex post, facendo astrazione dai luoghi comuni
e dalle semplificazioni commerciali e tenendo conto invece di una serie di variabili.
Più sano? Dipende dai punti di vista…
Il primo punto controverso è quello legato ai presunti valori nutrizionali superiori dei cibi bio: sull’argomento, nella comunità scientifica internazionale, da anni è in corso un dibattito. E per quanti studi accademici di provata autorevolezza sostengano che gli alimenti biologici contengano proteine e vitamine in quantità superiore a quelli convenzionali, ve sono altrettanti che invece ribadiscono l’assenza di elementi scientifici certi a suffragio di questa tesi (“Nutrition-related health effects of organic foods: a systematic review”, The American Journal of Clinical Nutrition, 2010) e mettono in evidenza piuttosto come (alla stessa stregua del gusto) le qualità nutrizionali di frutta o verdura dipendono da fattori mutevoli quali clima, territorio, varietà e freschezza e non, sic et simpliciter, dal metodo di coltivazione utilizzato.
Più genuino? Chiediamolo ai NAC Va da sé che contrassegnare, in termini assoluti, il cibo bio come “più sano” , appare un’argomentazione quanto meno opinabile. Molto più fondato invece, l’assunto sulla “genuinità” del biologico. Anche se, pure qui, è doveroso fare dei distinguo. Fermo restando che la filosofia bio bandisce tutti quegli antiparassitari e pesticidi (così come additivi e conservanti) di origine chimica che possono provocare danni alla salute e all’ambiente, non bisogna illudersi tuttavia che la normativa, seppur stringente, possa mettere al riparo l’intera produzione presente sul mercato dal rischio-residui chimici. A parte il paradosso del rotenone (l’insetticida vegetale usato per anni dalle aziende biologiche, che alla fine si è rivelato tossico ed è stato messo fuorilegge), sulla “genuinità” del bio pende costantemente la spada di Damocle delle contraffazioni. Le truffe scoperchiate, in quest’ambito, dai Nuclei Anti- frodi dei Carabinieri (NAC), sono decine. «Nel biennio 2011-2012 abbiamo portato a termine, assieme all’Agenzia delle Dogane, un’azione di respingimento di oltre 3 mila tonnellate di grano tenero falso “biologico” di provenienza straniera – spiega il colonnello Maurizio Delli Santi, comandante dei NAC del Comando Politiche Agricole e Alimentari – la progressiva crescita del settore e le forti aspettative del consumatore sui livelli di affidabilità delle certificazioni, ci hanno indotto a intensificare i controlli sulla filiera che hanno portato a bloccare alcuni prodotti importati dall’estero e a operare anche diversi sequestri di prodotti nazionali». Sul piano delle frodi di casa nostra, al Sud, dove (malgrado la domanda sia praticamente inesistente) tra Sicilia e Calabria si concentra il maggior numero di aziende biologiche di ortofrutta, non di rado succede – come raccontano i NAC – che «i coltivatori dichiarino di produrre grossi quantitativi di ortaggi su terreni che in realtà hanno una capacità produttiva minore: i restanti kg di prodotto vengono fatti arrivare dai campi ad agricoltura convenzionale, coltivati con l’utilizzo di pesticidi e senza alcuna garanzia bio».
Sostenibile? Sì, ma solo se è a km zero Veniamo quindi al problema della sostenibilità ambientale, perché prima di asserire frettolosamente che “biologico vuol dire (sempre e comunque) locale ed ecosostenibile” è bene esaminare alcuni fattori. Le restrizioni normative sul biologico, disciplinate dal Regolamento CE 834/2007 e a livello italiano dal Dm 220/95, se da un lato impongono ai produttori di rispettare terra, piante e animali, non usare Ogm e prodotti chimici, utilizzare risorse locali, favorire la bio- diversità ed evitare le colture intensive, dall’altro sono molto più blande rispetto alle modalità di commercializzazione e distribuzione. Negli anni ’90 il boom dei consumi e delle produzioni biologiche (solo in Italia le aziende, da 4 mila sono diventate 40 mila) ha innescato ovviamente l’interesse della Grande Distribuzione Organizzata, portando diverse multinazionali a investire nel settore. La resa limitata delle colture biologiche (30% in meno rispetto a quelli convenzionali) ha imposto però alla grande industria alimentare di importare i prodotti per poterli vendere su larga scala. In Italia, ad esempio, il latte biologico che si trova nei supermercati arriva in gran parte dalla Germania. Si può dunque definire “ecosostenibile” un latte che, prima di arrivare in tavola, percorre migliaia di km via gomma o via aerea, con dispendio di carburante e rilascio di agenti inquinanti nell’ambiente? Ma non solo: negli Usa diverse inchieste hanno dimostrato che la GDO, pur di rifornire di ortaggi bio i negozi, non si fa scrupolo a importare il prodotto da Paesi lontani migliaia di km e da coltivatori che non rispettano i principi-cardine del biologico. In soldoni: nel momento in cui il bio diventa un business di larga scala la sua sostenibilità finisce per essere inevitabilmente compromessa.
E chi controlla il controllore?
L’ultimo elemento – in realtà l’aspetto fondamentale che coinvolge trasversalmente tutti gli altri – su cui val la pena soffermarsi è la certificazione. Il sistema di controllo cioè che qualifica l’alimento bio come “affidabile” perché prodotto secondo normativa, autorizzando il produttore ad usare l’etichetta con il logo europeo, una foglia stilizzata composta da 12 stelle su fondo verde, che contraddistingue il cibo bio. Etichetta che, tracciando tutta la filiera, è l’unica davvero “trasparente” . In Italia è il Ministero delle Politiche Agricole a sovrintendere al sistema e ad autorizzare gli organismi di controllo, ovvero le società private accreditate presso l’apposito ente Accredia. Nel 2000 questi organismi certificatori erano 9: oggi sono 13 e lavorano sotto la supervisione delle Regioni e a stretto contatto con l’Ispettorato di tutela qualità e repressione frodi e i NAC. Il loro compito è verificare la rispondenza delle produzioni ai regolamenti del biologico e valutare le richieste di conversione delle aziende convenzionali. Il punto debole del sistema è che sono i produttori, a mezzo quota annuale e percentuale sul venduto, a pagare questi enti privati. Con conseguente ricarico di costo sui prodotti in vendita (il bio in media costa il 15% in più, anche per questo) e con tutte le perplessità del caso su un meccanismo in cui il controllato paga il controllore e i controlli non vengono sempre eseguiti con ispezioni in loco, ma solo sulla carta. Bios è uno degli enti certificatori italiani che adotta i protocolli più severi, con più visite ispettive alle aziende (la legge ne impone almeno una all’anno), ma il suo presidente Vittorino Crivelli ammette: «Mantenere questa rigidità è sempre più difficile. Per garantire i consumatori ci avvaliamo di tecnici specializzati che vigilano sulle aziende bio, mediante visite e relazioni. Ma ciò comporta costi più alti per le aziende clienti. C’è chi pratica prezzi inferiori ai nostri sul mercato, ma è difficile credere che possa operare col nostro stesso rigore». I controlli restano dunque il vero nodo gordiano. A maggior ragione da quando il mercato è esploso e la grande industria ci ha messo le mani sopra. Mandando in soffitta la filosofia bio con tutti i suoi buoni propositi.
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