È un fenomeno mediatico, editoriale, sociale, imprenditoriale, culturale. Genera trasmissioni tivù, blog, scuole di specializzazione, corsi di cucina. Non solo. La notorietà degli chef valorizza e traina nel mondo le eccellenze enogastronomiche del Bel Paese, promuovendo l’italian style all’estero, dando nuova linfa al settore alimentare a casa nostra e favorendo anche il taste tourism. Abbiamo deciso di attraversare lo Stivale e di incontrarli, gli chef, per scoprire il segreto della loro forza
“Dio fece il cibo, ma certo il diavolo fece i cuochi”. Suona un po’ come una premonizione l’affermazione di James Joyce, grande scrittore ma anche amante della buona tavola. Oggi, dopo quasi un secolo, la profezia si è avverata: gli chef si sono levati di dosso l’immagine del vecchio oste col grembiule unto, la faccia stanca e la pancia prominente e si sono tirati a lucido diventando le star mediatiche del Terzo Millenio. Personaggi, adorati dal pubblico e riveriti dal bel mondo, che impazzano sul web e nelle tv di tutto il mondo a suon di trasmissioni, video-ricette, libri, spettacoli ed eventi dedicati alla cucina. Ovviamente, nell’ambito della chef-mania che ormai impazza world wide, il Belpaese gioca un ruolo di primo piano, grazie a una schiatta di cuochi di talento assoluto che dal “decano” Gualtiero Marchesi ai nuovi mattatori Carlo Cracco, Antonino Cannavacciuolo, Bruno Barbieri e Alessandro Borghese, passando per il mitico Gianfranco Vissani (tra i primi a finire davanti alle telecamere), garantiscono uno straordinario ritorno di popolarità per l’Italian style in tavola. L’esplosione mediatica della gastronomia, insomma, ha trasformato i nostri cuochi in ambasciatori non solo del gusto, ma anche dei valori, delle tradizioni e delle culture regionali, espressione del territorio a cui sono legati. Va da sé che la categoria degli chef comincia ad assomigliare sempre più a un driver di enormi potenzialità per la valorizzazione dei prodotti Made in Italy e del nostro sistema agroalimentare.
Un cuoco ci salverà?Un’analisi lucida sul contributo che la ristorazione può esercitare per la diffusione delle eccellenze italiane oltre i confini nazionali, l’hanno fatta la giornalista Alessandra Moneti e Denis Pantini, direttore dell’Osservatorio Agroalimentare della società di studi economici Nomisma, nel libro Ci salveranno gli chef, partendo dal presupposto che agroalimentare in Italia significa occupazione, ricchezza, presidio territoriale e valorizzazione paesaggistica. Ma soprattutto qualità del cibo, cultura, divertimento e socialità. In altre parole, si tratta esattamente dell’italian lifestyle che tutto il mondo c’invidia. Un patrimonio che va tutelato e reso economicamente “sostenibile”, capace di generare reddito qui e all’estero. Impresa difficile, in un sistema-Paese stretto da burocrazia ed elevata imposizione fiscale, che penalizza rispetto agli altri player internazionali. Questo spiega perché oggi su oltre 54mila imprese alimentari, solo il 12% riesca a esportare e realtà come Eataly siano ancora delle eccezioni. Ecco allora che a “traghettare” i nostri prodotti all’estero ci pensano loro, gli chef. Contribuendo anche a fare incoming, come dimostrano i dati sul taste tourism.
Bottura & Fantin, “ori” italianiSì, perché se quello attuale è un momento decisamente favorevole per l’immagine e il brand Italia, il merito è anche (o soprattutto?) loro. Dei cuochi che “giocano in casa”, la cui cucina è capace di attrarre nel nostro Paese frotte di turisti pronti ad affrontare migliaia di chilometri e spendere cifre a più zeri per sedere ai loro tavoli. Come quelli dell’Osteria Francescana di Massimo Bottura, ovviamente, eletta lo scorso giugno il miglior ristorante del globo. A conferirle il prestigioso riconoscimento, una giuria di mille “tecnici” davanti ad un pubblico di oltre 800 esperti, personalità influenti e giornalisti internazionali, in occasione dell’ultima edizione dei The World’s 50 Best
Restaurants Awards, l’Oscar della gastronomia che si è svolto nelle sale del Cipriani Wall Street di New York. Si tratta della prima volta per un ristorante italiano: una vittoria di tutti che Bottura ha festeggiato agitando il tricolore. «La cucina è sacrificio – ha spiegato lo chef iridato – l’ingrediente principale è la cultura, che genera conoscenza e quindi coscienza e consapevolezza, e senso di responsabilità». Verso il proprio Paese, verso i propri collaboratori, verso la terra. Una grande lezione la sua. Ma a sostenere le imprese alimentari che vogliono portare i nostri prodotti nel mondo ci sono i ristoranti italiani all’estero, stimati tra i 60 e gli 80 mila circa, per un fatturato annuo superiore ai 30 miliardi di dollari. Come quello di Luca Fantin (una stella Michelin dal 2011), nominato “Chef italiano dell’anno 2015” da Identità Golose e oggi stabile all’hotel Bulgari Tokyo; interprete di una cucina contemporanea, innovativa e sofisticata, Fantin privilegia ingredienti giapponesi, senza rinunciare però al Carnaroli, all’extravergine e al Grana. All’italianità, insomma. E non ama le luci della ribalta, anzi crede che la moda degli chef divi non durerà ancora a lungo. Di questo, del resto, ne è convinto anche Joe Bastianich, ristoratore, viticoltore e imprenditore americano di origini italiane, oltre che volto televisivo: «La tendenza sta cambiando, a breve i riflettori si accenderanno sui produttori e non più sugli chef», ci “svela”. Staremo a vedere.
Un legame profondoMa qual è il rapporto che unisce chef, terroir e produttori? Un legame profondo, abbiamo scoperto, attraversando lo Stivale da Nord a Sud. Nasce dall’amore per la propria terra e dal rispetto per i produttori: «Una liaison basata sulla fiducia reciproca, che si costruisce nel tempo, tanto tempo», ci spiega lo chef Marco Sacco, patron del Piccolo Lago di Verbania, due stelle Michelin che si affaccia come la prua di una nave sul lago di Mergozzo, a un’ora da Milano. Attinge dal territorio lacustre, chef Sacco, affondando le proprie radici nella tradizione piemontese, consapevole dell’importanza di «riprendere il passato, modellarlo nel presente, proiettarlo nel futuro». Nei suoi piatti le materie prime diventano “materia”: i sassi del Toce raffreddati servono per servire il burro di Formazza e la beola ossolana, riscaldata, si fa cestino del pane. Presidente dell’associazione Chic, Charming Italian Chef, è anche un grande viaggiatore e ambasciatore della grande cucina italiana in Estremo Oriente. Ma non perde mai di vista la sua terra. «Negli ultimi anni c’è stato un ritorno alla valorizzazione dell’agricoltura – ci racconta – i neo-contadini laureati portano innovazione, nuove soluzioni per aumentare la qualità dei prodotti che utilizziamo per i nostri piatti», spiega. «Certo bisogna anche salvaguardare i piccoli produttori radicati nel territorio». Lo sa bene chef Norbert Niederkofler del bistellato St. Hubertus dell’Hotel Rosa Alpina elegante dimora firmata Relais & Châteaux, a San Cassiano in Alta Badia. Tra le cime altoatesine, Norbert cucina verdure antiche e sentori alpini, propone piatti per il 90% a base di prodotti del territorio e promuove lodevoli progetti legati alla cultura alpina come Cook the Mountain. Sulle dolci colline delle Langhe, a Serralunga d’Alba, si gusta invece la genuina cucina stellata di Ugo Alciati, magistralmente servita ai tavoli di Guido Ristorante, negli eleganti spazi di Villa Contessa Rosa, dimora di Vittorio Emanuele II e Rosa Vercellana, la Bela Rosin, nella riserva bionaturale di Fontanafredda. Figlio d’arte, papà Guido e mamma Lidia negli anni ’70 e ’80 hanno scritto la storia della ristorazione piemontese, è molto legato alla sua “langa”, come si dice da queste parti. In tavola, i piatti della memoria vengono rivisitati con creatività, facendo uso di materie prime eccellenti provenienti da produttori locali selezionatissimi, che Ugo conosce da una vita.
Tutt’intorno fanno da cornice gli onirici scenari disegnati dalle dolci colline piemontesi, in un territorio unico, tutelato dall’Unesco. Nella sua regione d’origine, il Veneto, è invece tornato Davide Bisetto, executive chef del Ristorante Oro dell’iconico Belmond Hotel Cipriani di Venezia. Per le sue eccelse creazioni si affida agli agricoltori della zona, per lo più poco conosciuti, piccoli pescatori, allevatori. Sottolinea l’importanza di trasmettere alle nuove leve che quello del cuoco è un lavoro artigianale fatto di passione, di costanza e di studio, con la missione di salvaguardare il savoir faire italiano. E si augura che la cucina italiana possa diventare patrimonio Unesco come quella francese. Puntiamo a sud e facciamo tappa a Senigallia per fare un tuffo nel regno di Moreno Cedroni, il mare. Patron de Il Clandestino Susci Bar e del bistellato la Madonnina del Pescatore, è proprio dall’acqua che pesca la materia prima dei suoi piatti-simbolo a base di crudo di pesce. E dalla terra? «Dalla terra raccolgo i grani antichi per il pane, le verdure del contadino con le mani consumate dal lavoro, gli oli extravergine migliori, le uova di galline serie, i formaggi di capre arrabbiate». Nella Terra di Trinacria, il mare si ammira invece dalla terrazza panoramica della Capinera, il ristorante stellato di Pietro D’Agostino, fautore di un approccio che punta a valorizzare la materia prima come espressione geografica e storico-culturale di una regione. «La mia cucina è come la mia Sicilia: solare e fresca», spiega. Gli fa eco il conterraneo Seby Sorbello, presidente dell’Associazione Provinciale Cuochi Etnei che, della cucina italiana dice: «è un grande e gustoso paniere di tante cucine regionali, unite da un unico filo conduttore: l’autenticità». Insieme condividono progetti come Cibo Nostrum, una grande festa della gastronomia d’eccellenza italiana in programma ogni anno a Zafferana e Taormina, che mette insieme chef del Belpaese e produttori siciliani. Come una grande famiglia. I NUMERITaste Tourism, un trend in crescita di Elisabetta Canoro Cresce del 12% all’anno il valore del turismo enogastronomico in Italia. Secondo una ricerca della società Jfc di Faenza, realizzata in collaborazione con l’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, il giro d’affari legato ai ristoranti stellati in Italia sfiora i 282 milioni di euro e i ristoranti Michelin attirano moltissimi turisti stranieri che generano un business di 208 milioni (gli italiani di 74). Vino – con il 18,6% delle preferenze è il prodotto di maggior appeal turistico –, formaggi e olio di oliva sono i prodotti top (insieme raccolgono il 44,9% degli interessi potenziali sul segmento del Culinary Travel), su cui vengono tracciati itinerari e organizzate esperienze nelle zone di produzione per gustare e scoprire produttori e territorio. E a proposito di territori, a detenere la leadership nelle preferenze degli stranieri sono Toscana ed Emilia Romagna seguite da Campania, Piemonte, Sicilia e Lazio. LE ASSOCIAZIONI Ristoratori di tutta Italia, unitevi! di Riccardo Lagorio
Quanto gli italiani siano in grado di stupire ai fornelli è evidente, oltre che notorio. Ma per contro, quanti sanno invece della presenza di alcune associazioni professionali che quella italianità in tavola, la propongono come obiettivo della loro stessa esistenza? Prendiamo il caso dei Ristoranti del Buon Ricordo, un’unione fondata nella primavera del 1964 grazie all’intuizione di Dino Villani che associò un gruppo di ristoranti (oggi un centinaio) con l’obiettivo di dare prestigio alle tante espressioni locali della tradizione gastronomica italiana, a quell’epoca poco valorizzata. Chi si associava assumeva l’impegno di praticare una linea di cucina tipica del territorio, di tenere sempre in carta una specialità che ne doveva essere la rappresentazione più rigorosa ed esemplare e a chi consumava quella specialità veniva donato un piatto decorato a mano dagli artigiani di Vietri sul Mare, che doveva fungere appunto da… buon ricordo. «Non siamo una catena di esercizi, ma un’associazione senza scopo di lucro che vuole promuovere e valorizzare le tante cucine del territorio italiano, visto che i prodotti locali sono talmente apprezzati da provocare equivoche imitazioni e falsificazioni che danneggiano l’Italia in tutti i sensi» sottolinea l’attuale presidente, Ovidio Mugnai. Raggruppa invece i professionisti della cucina la Federazione Italiana Cuochi (Fic), che conta su 19mila iscritti tra cuochi, docenti di scuole alberghiere e allievi. Tra gli scopi statutari, la promozione, la qualificazione e l’ aggiornamento degli associati e dell’immagine del cuoco; la Fic organizza concorsi di cucina in Italia e all’estero per il miglioramento delle pratiche degli iscritti ma garantisce anche un’assistenza di tipo sindacale a chi versa in stato di bisogno. Attraverso i suoi delegati, partecipa ai Campionati del Mondo e alle Olimpiadi Culinarie. Obiettivo aggregare ed essere luogo dove trovare spunti di crescita e confronto: è quanto si propone l’Associazione Professionale Cuochi Italiani (Aipc), quasi uno sportello per professionisti dove ottenere la certificazione della propria professionalità, usufruire di una selezione di occasioni di lavoro e diventare testimonial per le aziende del settore con cui collabora. I più qualificati ricevono per merito professionale il premio Stelle della ristorazione o i Cappelli d’onore alla carriera. Un consesso del tutto particolare è infine quello affiliato ai Locali storici d’Italia: 240 soci (non solo ristoranti ma anche pasticcerie, caffè letterari e alberghi) che possono vantare almeno settant’anni di vita e sono stati protagonisti della storia d’Italia grazie a quanto accaduto all’interno delle loro mura. Qualche esempio? Quello della famiglia Allegrina-Fontana di San Sebastiano Curone (Al) che gestisce il Ristorante Corona dal 1702 e porta avanti da allora la tradizione gastronomica ligure-piemontese. O quella del Ristorante Finsterwirt di Bressanone, attivo dal Duecento. Per saperne di più:www.buonricordo.comwww.fic.itwww.cucinaprofessionale.comwww.localistorici.it