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La ricetta italiana per il business globale

 Luigi Einaudi sosteneva che la colonna dorsale dell’Italia è formata dai “piccoli imprenditori creativi, tenaci e intraprendenti”. Parole che, pur scritte 70 anni fa, sembrano fatte apposta per le pmi che oggi si sono inventate un nuovo e geniale modello – a metà tra franchising e utilizzo del marchio – per esportare i loro prodotti all’estero, senza investire ingenti capitali Eh sì, il grande statista Einaudi aveva proprio ragione. Creatività, tenacia e intraprendenza sono le premesse del nuovo fenomeno che sta supplendo alle sempre scarse possibilità che le piccole imprese italiane hanno di esportare all’estero. Da avvocato d’impresa, ho già avuto modo di predisporre contratti per 6 o 7 pmi, le quali, pur senza grandi mezzi, hanno saputo inventarsi un modello di grandissimo successo paragonabile ad un ibrido, formato mignon, tra un contratto di franchising e di utilizzo di marchio. Da un lato infatti, il franchising – sempre in crescita nei paesi emergenti – necessita di grandi capitali iniziali per imporre al mercato un concept particolare, dall’altro il contratto di utilizzo di marchio presuppone appunto una grande riconoscibilità a livello internazionale del brand. Entrambe le tipologie implicano investimenti molto ingenti. Ecco allora che i piccoli imprenditori si sono inventati una “terza via”, impiantando una normale attività commerciale ma concependo il proprio locale come fosse il numero uno di una grande catena. E anche se i settori – food, fashion, design – sono quelli tradizionalmente considerati come eccellenze assolute del Made in Italy, il genio italico sta nell’aver creato una location secondo il gusto e i concetti estetici di estrazione asiatica, araba o russa, incardinando i contenuti italiani in un contesto estero. Esempio emblematico, quello di una cioccolateria-pasticceria creata al centro di Milano e destinata al mondo arabo. I prodotti sono italiani e di altissimo livello, ma il locale sembra una gioielleria araba: al posto dei banchi espositivi, preziose teche atte ad accogliere diamanti che espongono invece cioccolatini e bignè, il tutto in un ambiente sfarzoso. Realizzato il format e creato un brand efficace, sono sempre innumerevoli gli operatori che arrivano dall’estero per intercettare la novità ed ai quali viene data la concessione dell’utilizzo del marchio per aprire nei loro Paesi un locale identico. Oltre alle concessioni, vengono predisposti dei corsi di preparazione e aggiornamento del personale, a garanzia dello stile tutto italiano. Così le nostre imprese si assicurano costanti fonti di entrata determinate da un diritto di utilizzo del modello, per i quali in media si richiede dai 2.400 ai 10mila euro l’anno di royalties e altre 6mila per i corsi formativi. Le percentuali sul venduto sono da evitare invece perché è impossibile operare un adeguato controllo. Tra i miei clienti, quello che è partito per ultimo ha già 7 punti vendita negli Emirati Arabi, mentre quello che è partito per primo ha 107 negozi col suo marchio in Cina. Fatevi due conti, partendo dal fatto che l’investimento è stato praticamente zero, e poi ditemi se questo non è ingegno imprenditoriale allo stato puro. 

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