Quello di Paestum è precoce. Il bianco del Tanagro è tenerissimo. Di quello di Pietralcna si apprezzano particolarmente i “carducci” mentre a Castellammare di Stabia è violetto. E potremmo continuare nell’elenco. Sì, perché ogni angolo della regione ha il suo, e assaggiarli tutti vuole dire intraprendere un tour tra paesaggi e borghi uno più bello dell’altro. “Il carciofo dal tenero cuore si vestì da guerriero”, scriveva Neruda in un componimento che è un’ode alla bellezza e alla maestosità di questo ortaggio simbolo della biodiversità del nostro Paese, che ne è primo produttore mondiale. Una delle regioni più ricche è la Campania, al quarto posto in Italia con duemila ettari in prevalenza concentrati nella vasta e fertile Piana del Sele. Ed è proprio da qui che partiremo alla scoperta del carciofo campano e dei territori che li ospitano. Street food tra i templiIgp da 12 anni, il carciofo di Paestum fa parte della famiglia del Romanesco, ma nei 14 comuni della Piana del Sele contemplati dal disciplinare, acquisisce peculiarità proprie. Carnoso, gustoso, con i capolini tondeggianti e senza spine, la sua storia è legata a doppio filo a quella della regione campana. Le prime testimonianze della sua coltivazione risalgono infatti ai Borboni, ma la sua vera diffusione agricola la si deve all’opera di bonifica degli anni Trenta. Da allora gli agricoltori hanno affinato le tecniche di coltivazione di un ortaggio prezioso anche per la sua precocità: compare sulle nostre tavole a inizio febbraio, per restarci fino a fine maggio. Assaggiarlo nel luogo di produzione non può prescindere da una visita al Parco Archeologico di Paestum. Patrimonio dell’Umanità per l’Unesco è dominata dai tre templi di Hera, Poseidone e Cerere. Durante la stagione dei carciofi è facile trovarli tra i numerosi banchi di ortofrutta che colorano la statale che collega Salerno al Parco Archeologico, ed a volte è possibile acquistarli già cotti alla brace dai venditori ambulanti. Un inusuale street food per godersi a pieno una passeggiata nella storia. Una tenerezza unicaA circa 70 chilometri di distanza, sempre nella provincia salernitana, si apre la Valle del Tanagro. Qui, nei comuni di Auletta, Caggiano, Pertosa e Salvitelle, va crescendo la coltivazione del carciofo bianco di Pertosa (o del Tanagro). Questa varietà, salvata di recente dall’estinzione anche grazie all’istituzione di un Presidio Slow Food, rappresenta la migliore espressione cinaricola della regione. Verde argenteo all’esterno, va schiarendosi al suo interno, regalando una tenerezza unica nel suo genere, accompagnata da una spiccata dolcezza. Caratteristiche che lo rendono adatto a essere servito come carpaccio e hanno ispirato un gelato d’autore firmato dal maestro gelataio Enzo Crivella. In pellegrinaggio a PietralcinaA rappresentare il Sannio, sornione e riservato, è il carciofo di Pietrelcina. Nel paese natìo di Padre Pio, divenuto negli anni mèta di pellegrinaggio, fu introdotto nel 1840 da un prefetto di origini pugliesi. Da allora questo ortaggio scandisce i tempi degli agricoltori con una serie di fasi eseguite rigorosamente a mano. A caratterizzare questa coltivazione sono i “carducci”, i quali rientrano a pieno titolo in un piatto beneventano preparato nel periodo natalizio, denominato “cardone”. In pratica i germogli che la pianta produce alla base vengono ripiegati su se stessi, legati e lasciati crescere ricoperti di terra. L’assenza di luce aiuta il mantenimento di una eccezionale tenerezza e carnosità. Una volta giunti a Pietrelcina alla ricerca del suo carciofo, non privatevi di una lenta passeggiata nel suo centro storico, curato e affascinante. Suggestiva la visita alla casa natale di Francesco Forgione, al secolo Padre Pio. Ferma nel tempo, rappresenta uno spaccato della vita di inizio Novecento. Il carciofo di PasquettaNel napoletano resiste ancora oggi il carciofo di Schito, così denominato perché in epoca romana coltivato principalmente nell’area definita “orti di Schito”, negli ultimi quarant’anni violentata dalla cementificazione selvaggia. Nel territorio di Castellammare di Stabia questo carciofo violetto viene protetto dai raggi del sole con delle coppette di terracotta, denominate “pignatte”, posizionate sull’infiorescenza apicale. Ciò gli consente di conservare un colore più tenue e una maggiore tenerezza. Presidio Slow Food, è il simbolo indiscusso del giorno di Pasquetta, dove il carciofo arrostito sulla brace è un’istituzione che non subisce contraccolpi. Castellammare di Stabia è una base logistica indiscussa per conoscere il Nord della Campania, anche grazie al nuovo porto tra i più grandi d’Europa. Con le sua cinquanta chiese e i quattro santuari, permette letture diverse in base ai propri interessi. Senza dimenticare il fascino delle antiche dimore stabiesi che enumerano otto ville e sessanta ville rustiche. A rinforzare le fila dei tanti itinerari turistici possibili con in comune il fil rouge del carciofo campano, vi sono pure i carciofi “capuanella”, di Montoro e di Procida. Il primo prende il nome da un vezzeggiativo della città di Capua, nella provincia di Caserta. Il carciofo irpino, coltivato in particolare nella frazione di Preturo, fa anch’esso uso delle pignatte. Stavolta a difesa del freddo e del gelo, più che del sole. Infine il carciofo isolano, anch’esso del tipo Romanesco, non può che raccogliere le influenze della piccola “isola di Arturo”. Il famoso libro di Elsa Morante è stato pretesto per fondare un interessante premio letterario che ancora oggi porta scrittori e appassionati lettori a Procida.