Paradigma dell’Italia intera come avrebbe potuto essere e non è, da qualsiasi prospettiva la si guardi la capitale del Canavese racconta una storia diversa. Dal teatro romano invisibile al villaggio Olivetti, dalle insegne Anni ’50 del centro alle leggende antiche che ormai emergono a stento coperte da una pioggia di arance Non potranno che essere le torri a guidarvi, da lontano, verso la città. Le tre del castello sabaudo, rosse, svettanti contro le Alpi e orfane di una quarta abbattuta e mai più ricostruita, che ispirarono il famoso verso del Carducci. Ma anche quella di Corso Cavour che impreziosisce il lungofiume, e le ciminiere sopra i tetti di opifici andati ormai perduti. Torri malinconiche, retaggio d’un tempo antico e maestoso al quale quella che fu la romana Eporedia (toponimo che rimanda ai cavalli, simbolo indimenticato di queste terre) è ancor oggi aggrappata. Al pari d’ogni luogo del Piemonte, anche Ivrea, come una vecchia zia che custodisce a mò di reliquie le sue spille d’epoca nel portagioie, non sfugge a un certo nostalgico arroccamento sul proprio passato. Una nobile decaduta che conserva ancora il contegno e, assieme alle vestigia, anche i rimpianti dei fasti che la videro, intorno all’anno Mille, capitale ante litteram del regno d’Italia per volontà di re Arduino e poi, per tutto il secolo scorso, polo industriale d’avanguardia, grazie alle intuizioni di Camillo Olivetti e del figlio Adriano. La città (industriale) idealeIvrea dunque, è città che, prima di tutto, fa rabbia. Una sorta di paradigma dell’Italia che poteva essere e non è stata. Qui, ancor prima che l’ingegner Camillo tirasse su nel 1908 il famoso “edificio in mattoni rossi” capace nei decenni successivi di sfornare macchine da scrivere e da calcolo su cui avrebbero lavorato intere generazioni, la grande industria era già di casa, grazie alla presenza di manifatture tessili di prim’ordine come Rossari&Varzi e Soie de Chatillon, azienda questa che per prima a inizio ‘900 produsse le calze di seta. Qui, soprattutto, per tornare a Olivetti, mezzo secolo fa nasceva il prototipo del calcolatore elettronico “di seconda generazione” (l’antesignano del pc), venduto all’americana General Electric dopo la morte di Adriano. Quel che poteva essere e non è stato, appunto. Fortuna che, rabbia a parte, c’è spazio anche per le emozioni. Oggi che l’azienda è di proprietà di Telecom e i muri se li sono presi gli immobiliaristi, dell’eredità olivettiana resta quello straordinario Museo a cielo aperto delle Architetture Moderne che è il MaAM: un percorso di 2 km attraverso gli edifici più rappresentativi della sua storia. Dal già citato “edificio in mattoni rossi” agli stabilimenti più moderni, dai centri di ricerca alle case per i dipendenti che Adriano Olivetti aveva immaginato per la sua idea di “Comunità” nella quale produzione industriale e politiche sociali non potevano essere disgiunti. Tra l’ex-asilo e le abitazioni civili, l’unità residenziale detta “Talponia” (ottanta alloggi interrati con affaccio sul bosco) e la piccola chiesa quattrocentesca di San Bernardino – che merita una visita solo per gli affreschi di Gian Martino Spanzotti e l’iscrizione di una preghiera risalente al 1430 – lì c’è un po’ tutto l’Olivetti-pensiero materializzato attraverso manufatti e fabbricati. Un complesso industriale e urbanistico che, nel 2012, è valso a Ivrea la candidatura a patrimonio Unesco quale “Città industriale del XX secolo”.
La città (industriale) idealeDa Via Jarvis, asse stradale su cui è incardinata la legacy urbanistica olivettiana, risalendo verso il centro, stupore e rabbia non smettono d’andare a braccetto. Alla rotonda di Corso Nigra, ad esempio, una scultura a forma di mano che stringe un’arancia, ci ricorda che l’attuale capoluogo del Canavese è noto ai più per la “battaglia delle arance” che ogni anno in febbraio infervora le sue contrade. Peccato però che, ad ascoltarne la genesi, si scopre che la pittoresca lotta sia solo un’appendice – moderna e anche un po’ casuale, se vogliamo – d’una festa carnascialesca che affonda le sue radici nel Medio Evo, incarnando al meglio miti e ideali del territorio. La Mugnaia, personaggio-simbolo, rappresenta infatti una popolana che si ribellò allo ius primae noctis uccidendo il tiranno, innescando la rivolta e affrancando gli eporediesi dalla schiavitù. Ecco perché al suo passaggio, durante i giorni di festa, il popolo si inchina. Per fare la fortuna dello storico Carnevale d’Ivrea però son dovute arrivare, dall’Ottocento in avanti, le arance (non esattamente un prodotto locale). Tant’è. I residenti non stanno tanto a sottilizzare, anzi. E continuano a tenersi stretti il loro passato, comunque sia. Basta guardare le insegne dei negozi del centro, che sembrano uscite da un film Anni ’50. Se invece, dal lungofiume che costeggia la Dora Baltea si fa un giro ampio per sbucare sulla strada principale, Via Palestro, passando per l’unità residenziale La Serra dalla forma di macchina da scrivere – altro lascito architettonico di Olivetti – ci si imbatte nel vecchio cinema Boaro, “il primo che diede in Italia rappresentazioni di cinematografia microscopia e raggi x nel 1897” si legge sulla tabella ormai datata. È la parte più antica della città, da percorrere a piedi, indugiando magari sull’ampia piazza del municipio che ha tre nomi (“di Città”, “Nazionale” o “Vittorio Emanuele”, fate voi, comunque non sbagliate) e un palazzo comunale sulla cui cima svetta il simbolo della canapa, un tempo coltura assai diffusa nel Canavese. Il tragitto che conduce al Castello dalle torri rosse care al Carducci e poi al Duomo dell’Assunta, all’interno del quale c’è una meravigliosa cripta del X secolo, passando per la salita di Via Peana sotto il cui ciottolato si celano le rovine del teatro romano, ci conferma che questa città cambia continuamente prospettiva, a seconda di come la si guardi: romana, napoleonica, razionalista, industriale. Legata ostinatamente alla propria memoria, certo, ma forse non proprio a torto. Per saperne di più:www.comune.ivrea.to.itwww.arcoliv.orgwww.ivreacittaindustriale.it