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Il vino è femmina

In principio fu la marchesa Falletti di Barolo. Oggi, un secolo e mezzo dopo, l’italian wine ha un’anima sempre più rosa. Per passione o per tradizione familiare, sono in aumento le donne che “entrano in vigna”. Una tendenza in netta crescita, che passa anche dai consumi. Seguiteci dunque in questo viaggio tra le protagoniste, vecchie e nuove, dell’enologia tricolore. Un binomio che è foriero di mille racconti. Nell’arte come nella letteratura, nella poesia. Un accostamento che è spesso incipit di passioni e sensualità, ma anche di pericolo, visti come “strumenti” di perdizione. Questo è vero soprattutto nei racconti “femminei” del vino, ovviamente, nella stragrande maggioranza dei casi, fatti da uomini. Pensiamo ad esempio al “saggio” re Romolo che aveva concesso ai mariti di quel buon tempo antico il diritto di punire con la morte la moglie che fosse stata sorpresa a bere o anche soltanto, horribile dictu, con le chiavi della cantina in mano. Una legge che oggi, forse, sarebbe giudicata un tantino maschilista. Eppure all’epoca non furono pochi i volonterosi cittadini che si premurarono di obbedirvi! Per fortuna il tempo passa e l’acqua, ma anche il vino, scorre sotto i ponti. E così, “già” nel 1230 Irminigarda dei conti di Gorizia, badessa del monastero benedettino di Santa Maria degli Angeli di Aquileia, poté festeggiare il suo anniversario, brindando, insieme con le sue consorelle, con il vino frutto dei vigneti proprietà del convento. Era infatti grazie alla buona amministrazione e alle capacità imprenditoriali, questa volta tutte al femminile, con cui veniva gestito il monastero se i vini della zona godevano in tutta Europa fama di grande prelibatezza. Perché spesso è l’ingegno di una donna a fare la differenza. Come la storia non manca di testimoniare. Quella di Juliette Colbert de Maulévrier, per esempio, che divenne, per amore del marchese Tancredi, Giulia Falletti di Barolo. Soltanto tra i vigneti delle Langhe piemontesi era riuscita a ritrovare quella serenità che gli orrori della Rivoluzione avevano sottratto alla sua infanzia felice nella campagna della Vandea. Guidata allora dalla memoria di profumi e sapori lontani, decise di mettere a punto, nella tenuta di famiglia, una serie di fortunate innovazioni enologiche da cui nacque il Barolo. L’unico, ai tempi, in grado di tener testa alle più blasonate etichette d’Oltralpe, ben presto caposcuola del grande rinnovamento vitivinicolo dell’intera regione. Così, grazie alla marchesa Giulia, il tabù era stato infranto: le donne erano ufficialmente entrate a far parte della storia del vino. Ed è proprio il nuovo secolo, quel Novecento che finalmente ha visto il vino italiano far parlare di sé sui mercati internazionali, che segna il grande riscatto del vino al femminile. Ecco finalmente una donna entrare per la prima volta in possesso delle chiavi di una cantina. E che cantina! Quella del Papa. Il Pontefice in questione è Achille Ratti, salito al Soglio di Pietro col nome di Pio XI nel 1922. Appena eletto, volle con sé, a sovraintendere sulle cucine del Palazzo apostolico, la sua governante dell’Arcivescovado milanese, nonché sorella adottiva, Teodolinda Banfi. Era lei, “piccola e autoritaria”, a occuparsi del menu dei pranzi ufficiali e, soprattutto, dell’abbinamento con i vini, di cui era grande esperta e conoscitrice. Una passione di famiglia, che seppe trasmettere ai nipoti, i fratelli John ed Henry Mariani fondatori di Castello Banfi, la grande tenuta che oggi si muove tra Toscana e Piemonte, e che, non a caso, porta il suo nome. Ma la storia continua… >> Sfoglia la gallery delle protagoniste <<   Passione e tradizioneE arriva fino ai giorni nostri quando il binomio “donne e vino”, ormai consolidato, ha fatto posto all’espressione “donne del vino”, ovvero soggetti attivi e operanti nel mondo vitivinicolo, il cui contributo ha fatto crescere interessi e fatturati nel comparto. Fra le donne manager del vino, quelle con cantina, sono le più numerose e guidano il 30% delle aziende vitivinicole italiane che, tradotto in cifre, fa 115 mila. Il 77% di queste produce etichette di qualità, che ricadono nelle denominazioni Doc e Docg. Non sono storie da «mollo tutto e mi do alla campagna», anzi. Nella maggior parte dei casi la scelta di produrre vino deriva dall’esigenza di continuare la tradizione familiare. Il taglio femminile spesso vuol dire anche diversificazione, o meglio ampliamento delle attività connesse all’azienda come la trasformazione dei prodotti, l’accoglienza, il recupero di antiche varietà, le fattorie didattiche, gli agroasili o la pet-therapy. Di pari passo all’innovazione nel campo produttivo, si muove anche quella nel mondo dei consumi. Un ricerca effettuata da Vente Privee, uno dei portali leader dello shopping online, ha evidenziato come quasi la metà – il 47% – dei clienti che comprano vino sono donne tra i 30 e i 40 anni. Il 98% delle intervistate lo associa alla cena e quindi a un momento di convivialità. Sulla scia di questi dati, s’inserisce la ricerca Donne, vino e seduzione, curata dal professor Gabriele Micozzi, docente di Marketing alla Luiss di Roma. Emerge così che l’84% delle donne italiane vorrebbe approfondire la propria conoscenza del vino, stessa percentuale di chi preferisce i vini autoctoni, mentre il 18% si considera un’appassionata e il 58 semplicemente curiosa. Nella scelta di un prodotto si lasciano guidare dal terroir (22%), dal passaparola (16%) e dalle storie riportate sul retro della bottiglia. E se le donne anche per il vino sembrano avere più “fiuto”, pare che non dipenda da capacità cognitive ed emozionali. Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica PloS One ha infatti dimostrato che nel gentil sesso il bulbo olfattivo – la struttura del cervello che per prima riceve le informazioni sensoriali catturate nelle narici – è formato dal 43% di cellule in più rispetto a quello degli uomini. Ma le protagoniste del mondo del vino cosa pensano della differenza di genere nell’ambito del loro settore? È un valore aggiunto o una sottile forma di discriminazione? Il potere della sensibilità«Vengo da una cultura che mi ha insegnato che la parità si ottiene anche con l’astuzia e in questo, noi donne, siamo avvantaggiate». La pensa così Pia Donata Berlucchi, titolare dell’omonima azienda in Franciacorta. Una bresciana “dal piglio austro-ungarico” (così dicono di lei le socie dell’Associazione Donne del Vino) che, ancora oggi, a 73 anni, quanto a tempra ed entusiasmo non ha niente da invidiare a una ventenne. «In montagna attacco gli scarponi alle 9 e li tolgo alle 17», racconta una delle donne-simbolo dell’italian wine, due volte presidente dell’Associazione Donne del Vino e tuttora vicepresidente Onav (Organizzazione Nazionale Assaggiatori di Vino). Attualmente impegnata nel progetto che le sta più a cuore, ovvero portare la cultura del cibo e del vino nelle scuole dell’obbligo, la Berlucchi aggiunge: «Mi riconosco più una mentalità maschilista che femminista. Mi lasci spiegare: amo le donne coraggiose, che stringono i denti, che non fanno piagnistei e che non si sentono minacciate dalla presenza maschile». Donne toste, insomma. Come le “signore del bicchiere” umbre, Maria Grazia, Chiara e Teresa Lungarotti, il cui cognome, insieme al nome di Giorgio, è indissolubilmente legato alla regione dell’Italia centrale. Maria Grazia, 88 anni, tutte le mattine va in ufficio in Fondazione che è sede anche del Muvit, il museo del vino più ricco d’Italia e si è circondata di un team di 30enni perché le piace lavorare con loro; Teresa è assessore al comune di Perugia; Chiara è amministratore unico delle cantine. Studi di Agraria, tesi in Enologia e specializzazione a Bordeaux. La sorella è stata una delle prime enologhe in Italia negli anni ’70. «Se amo lavorare più con donne o con uomini? – si interroga l’imprenditrice – ce ne sono tante in azienda, ma mi avvalgo di persone che abbiano sensibilità e intelligenza, al di là del genere. Riconosco tuttavia alle donne un’attenzione al dettaglio maggiore e la capacità di portare avanti più cose contemporaneamente».  Gran dame di ToscanaDall’Umbria alla Toscana il passo è breve. E qui incontriamo Donatella Cinelli Colombina, altra “decana” dell’enologia tricolore, che al femminile ha scelto persino il nome dell’azienda: Casato Prime Donne. Non stupisce pertanto che lì a Montalcino le cantiniere siano tutte donne, enologa compresa. «Mi attengo ai dati – spiega Donatella – e questi dicono che nelle aziende condotte da donne le performance sono migliori, ci sono meno licenziamenti e lavori più stabili, più predisposizione all’innovazione». Vicepresidente dell’associazione Donne del Vino, dichiara: «in 25 anni ci siamo supportate, ci siamo sentite meno sole, abbiamo lavorato sull’autoconsiderazione. È una delle poche associazioni che ha un peso come interlocutore istituzionale». Quanto all’azienda, l’imprenditrice ricorda un inizio curioso: «Dovevo trovarmi un enologo e chiamai la scuola enologica di Siena per farmi indicare qualche studente. Mi risposero che c’era da prenotarsi, a causa dell’alta richiesta. Poi, aggiunsero, ci sono le enotecniche e quelle non le vuole nessuno!». Era il 1998. Decisamente altri tempi. Quando forse non sarebbe stato possibile per Barbara Chelini prendere in mano le redini dell’azienda agricola di famiglia acquistata dal nonno nel dopoguerra, 10 anni fa. “Un anno sono venuta qua ‘a dare una mano’, e poi ci sono rimasta”, racconta semplicemente, ma in modo deciso. L’azienda agricola Colle di Bordoche si trova a meno di 10 km dalle Mura di Lucca, a Segromigno in Monte, incastonata tra il parco di Villa Mansi e quello di Villa Torrigiani, due tra le più celebri ville lucchesi. Qui Barbara, affiancata dalla famiglia, amplia e ristruttura la cantinae reimpianta le vigne, dalle quali oggi nascono cinque vini, tra cui due Igt, il Bianco dell’Oca, blend di Chardonnay, Sauvignon e Vermentino, e il Picchio Rosso, assemblaggio di Sangiovese, Merlot e Cabernet Sauvignon. Barbara oggi ammette senza vanterie «mi sto facendo una cultura», visto che alla base di questa sua impresa c’era principalmente “solo” una grande passione. La stessa che muove la vita di Antonella D’Isanto, siciliana di nascita e toscana d’adozione, titolare dell’azienda vinicola I Balzini di Barberino Val d’Elsa, una delle piccole realtà più interessanti del panorama toscano. Ed è qui, sulle colline a metà strada tra Firenze e Siena, che per oltre un decennio Antonella ha portato avanti un progetto unico per la sua Gold Label, una sfida ai limiti della sostenibilità economica ma dal grande valore simbolico. La produttrice voleva che le uve fossero l’espressione più profonda del territorio dove sorge l’azienda, e ha fatto sì che le radici del vigneto da cui si ricava il Gold Label cercassero sempre più in profonditа nel terreno, facendole affondare fisicamente «fino all’abisso – spiega – che è la memoria di un mare preistorico il cui ricordo resta nei fossili e nella potente ricchezza dei sali minerali che conferiscono al vino un carattere unico». Per dieci anni la famiglia D’Isanto ha cullato quel singolo vigneto di Merlot alla ricerca del mix ideale di profumi, colore e sapore. Un lavoro dispendioso, dal momento che due persone hanno dovuto lavorare per 8 ore al giorno per indirizzare le radici esclusivamente verso il basso, almeno due volte l’anno. Per Antonella D’Isanto, che è anche presidente toscana delle Donne del Vino, il risultato è arrivato quest’anno col debutto di un vino luxury – circa 500 euro alla bottiglia – prodotto in 360 bottiglie e 250 magnum.  Come una madreDagli abissi alle vette vertiginose, ci spostiamo a Furore, a conoscere Marisa Cuomo. Non ama i riflettori Marisa. Il suo posto è tra le vigne ed in quella cantina scavata nella roccia che rappresenta a pieno il percorso e la fatica che sin da giovanissima l’ha condotta ad essere una vera signora del vino. Giovanissima incontra Andrea Ferraioli, condivide con lui il sogno di un’azienda vitivinicola. Ma in Costa d’Amalfi la strada è ancora lunga: era il 1980 e solo nel 1995 sarebbe arrivata la Doc e una bella rivoluzione che avrebbe dato respiro a questi eroici produttori. Marisa Cuomo oggi è il simbolo del trionfo della biodiversità e dell’Italia dai mille volti. Assieme a suo marito e ai figli gestisce un’azienda di difficile natura. I vigneti si sviluppano in verticale, ancora com’erano una volta, tenuti in piedi dai miracolosi muretti a secco che dall’anno Mille hanno permesso che qui si coltivasse. Decine le varietà autoctone, tra cui le tre più note che hanno dato vita al pluripremiato Fiorduva: Fenile, Ginestra e Ripoli. Marisa è sorridente, presente, ma preferisce vivere a pieno il suo ruolo “materno”. «Dovreste vedere come coccola il suo vino, come meticolosamente e silenziosamente lavora in cantina», racconta suo marito. D’altronde la difficoltà ha caratterizzato sin dalla nascita una produzione eroica. Nessun mezzo può entrare in queste vigne affacciate sul mare del Golfo di Salerno e che vanno dai 180 ai 600 metri, solo mani sapienti ed esperte che raccolgono l’uva, potano, ripuliscono, curano. «È solo l’amore per il nostro territorio ad averci concesso tanta forza, ad averci permesso di arrivare fin qui», concludono Marisa e Andrea. Un rapporto equilibrato il loro, proprio come quello che sostiene sia alla base del successo della propria azienda vinicola Francesca Planeta. «Da vent’anni la guido insieme ai miei cugini Alessio e Santi, con i sempre preziosi consigli di mio padre Diego – ci racconta – tanto basta a farmi dire che a fare la differenza non è un punto di vista maschile o femminile, ma può esserlo l’equilibrato apporto di entrambi. Nella nostra azienda accade ciò che accadeva già nella nostra famiglia: un pieno coinvolgimento della parte femminile, non solo nella gestione delle relazioni personali ma anche in quella dei rapporti professionali, con un grande rispetto della differenza dei ruoli». Francesca, 44 anni, vive a Milano, ma non perdere mai una vendemmia e si occupa del marketing e della comunicazione del marchio Planeta, produttore di grandi vini che portano orgogliosamente nel mondo il nome di famiglia. Sei, in tutto, le tenute: Ulmo a Sambuca di Sicilia, Dispensa a Menfi, Dorilli a Vittoria, Buonivini a Noto, Feudo di Mezzo sull’Etna e La Baronia a Capo Milazzo. «Sono stata tra le pioniere in questo settore – dichiara – ma oggi sempre più donne vanno assumendo ruoli importanti nel mondo del vino, che va perdendo la sua connotazione prettamente maschile. In fondo le donne, seppur da dietro le quinte, sono sempre state protagoniste fondamentali nel mondo agricolo». A Francesca, da Menfi, fa eco Marilena Barbera dall’azienda Cantine Barbera, regno suo e della madre. «Più che un’azienda al femminile – sottolinea – questa è un’azienda familiare, dove per familiare si intendono anche i litigi, le arrabbiature e le porte sbattute. La cosa suona poco imprenditoriale, ma la stima e l’affetto si rivelano poi un collante più forte dei business plan». Nel mondo del vino, secondo Marilena, l’entrata in scena di sempre più donne, anche tra le consumatrici, ha cambiato altresì i gusti: «Una certa unidirezionalità della beva, potente, alcolica, strutturata, aveva un’impronta piuttosto maschile – dice – la femminilizzazione del gusto ha invece arricchito lo spettro delle sensazioni gusto-olfattive. E forse ha introdotto anche il concetto di “diversità” e non solo di “buono e cattivo”».    I NUMERILe donne nelle associazioni italiane di sommellerie (dati 2014) ONAV ………..28% di donne sul totale dei sociAIS……………30,3%FISAR…………35 %    

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