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«Giotti, chef of India»: il docu-film che racconta uno chef tra due mondi

La vita, le storie, i piatti, i sapori – dalle spezie in giù – che compongono quel gigantesco mosaico che è la cucina indiana: il docu-film Giotti, chef of India entra con delicatezza nella vita e nella cucina di Giotti Singh, lo chef originario del Punjab che da 25 anni ha scelto Firenze per dare forma al suo ristorante Haveli e che ora, attraverso un documentario, torna alle origini per ripercorrere un viaggio insieme personale e collettivo.

Realizzato da Luca Farinelli, Nicola De Maio e Davide Lusana di DirezioneWeb, il film segue Giotti tra la sua città natale Chandigarh, Delhi, Amritsar e il confine con il Pakistan. Non è una semplice biografia, quella raccontata per immagini, bensì una sorta di mappa sensoriale: primi piani sulle mani che impastano, sul forno tandoor che brucia, sulle spezie macinate, in un’alternanza costante fra vita quotidiana e scoperta delle cucine dell’India del Nord. Ogni tappa aggiunge una sfumatura al ritratto dello chef: Chandigarh come radice e memoria; Delhi come crocevia di influenze; Amritsar come custode della tradizione; il confine indo-pakistano come luogo in cui storia e identità si intrecciano, non senza tensioni.

La cucina come archivio di vita

Presentato in anteprima a Scandicci, Giotti, chef of India racconta la cucina come un archivio personale, fatto di ricette tramandate, sapori che riportano volti e attimi del passato, piatti che diventano bussola nei passaggi cruciali della vita. A Firenze, nella cucina di Haveli condivisa con la moglie Rubel, Giotti fonde il rigore e il tempo lento della cucina italiana con la complessità dei metodi indiani — celebri le sue lenticchie e il butter chicken — senza mai snaturare le origini. Il film illumina il lavoro di ricerca che sta dietro ogni piatto: dagli ingredienti locali scelti per rispettare le strutture aromatiche originali, alla capacità di reinterpretare senza tradire.

Le scene nelle cucine dei ristoranti amici sono intime, quasi tattili: il suono della carne massaggiata, il fuoco che soffia, il gesto che schiaccia il coriandolo fresco. Il montaggio alterna questi dettagli sonori alla vitalità della strada — clacson, mercati, voci — restituendo la complessità sensoriale dell’India e del suo modo di stare a tavola.

Tra memoria personale e storia collettiva

Il cuore del film è anche la storia familiare di Giotti: ricordi d’infanzia, racconti dei parenti, la dimensione domestica che si intreccia alla storia della regione, tra confini mutevoli, migrazioni e peculiarità della comunità locale. La scelta dei registi è discreta: non un’indagine politica, ma una testimonianza intima. È nella tavola imbandita che si sciolgono i nodi: una ricetta diventa legame tra generazioni, una spezia narra un viaggio, un piatto ricreato in Toscana si fa gesto di memoria e reinvenzione. Anche le sequenze al confine pakistano mantengono questa misura: niente enfasi, solo presenza, per ricordare che il cibo porta con sé storie complesse, di riconciliazione e talvolta di perdita.

La colonna sonora segue la stessa logica: musiche tradizionali, silenzi misurati, voci che emergono naturali. Le interviste a Giotti e ai membri della sua famiglia – dalla moglie Rubel ai figli Vir, Lina e Sergio – sono spontanee, spesso interrotte dal gesto del cucinare, come se il pensiero potesse esprimersi solo attraverso la pratica.

Un ritratto di migrazione, memoria e creatività

Giotti, chef of India non è solo un documentario gastronomico: è un racconto di radici, di migrazioni e di immaginazione culinaria. Offre allo spettatore una chiave per comprendere come le identità si trasformano e come la cucina possa diventare ponte fra mondi lontani. Chi conosce già Haveli e chi scopre per la prima volta la figura di Giotti troverà nel film un motivo d’interesse: la celebrazione della cucina come arte concreta, linguaggio emotivo e luogo di incontri.

In un’epoca in cui le identità spesso si riducono a etichette, il film dedicato a Giotti invita a fermarsi e ad ascoltare le storie dietro ogni piatto, ricordando che la tradizione non è un blocco immobile, ma un racconto in continuo movimento, che cambia ogni volta che attraversa un nuovo territorio.

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