In un Carosello degli anni Settanta alla stazione di Torino Porta Nuova arriva, con un diretto da Zurigo, un turista svizzero. Si aggira per la città alla ricerca dei famosi giandujotti. E torna a casa soddisfatto, dopo aver riempito un intero scompartimento di scatole di cioccolatini.
Sono passati cinquant’anni, e quel piccolo cioccolatino dal peso compreso tra i 4 e i 12 grammi, la forma di prisma, l’incarto dorato e il gusto inconfondibile continua ad essere una gioia per il palato e il simbolo di una città, amato e diffuso ormai in tutto il mondo. Sulle sue origini si intrecciano storie e leggende, ed è certo che anche la Storia, quel con la maiuscola, ha fatto la sua parte.
Torino, innanzitutto: il cioccolatino è nato qui. Si chiamava diablottino, era un piccolo disco aromatizzato alla vaniglia e veniva servito alla Corte dei Savoia insieme alla Merenda Reale. Era la metà del Settecento, era la prima volta che la cioccolata, arrivata in Europa con la scoperta dell’America, veniva gustata in una forma diversa dalla bevanda calda. Un “pezzettino di cioccolata a figura di rotella piana che si mangia crudo” lo definisce Vittorio Righini di Sant’Albino nel suo “Gran dizionario piemontese-italiano”, pubblicato nel 1859.
Il diablottino (una vera tentazione, il nome significa “diavoletto” dal piemontese diablotin) fa la sua strada, si dice che conquisti le corti europee: cosa c’è di più piacevole di una cioccolata che può essere gustata ovunque? Ma anche la Storia va avanti e nel 1806 Napoleone (entro la cui orbita Torino è già da quattro anni) istituisce l’embargo commerciale noto come Blocco Continentale: niente più navi britanniche nei porti dell’Impero, e quindi, tra le tante cose, niente più cacao sugli scaffali delle cioccolaterie europee, se non ad altissimo costo. I pasticcieri torinesi trovano la soluzione perfetta: la nocciola tonda gentile delle Langhe. Sarà tritata e aggiunta alla pasta di cacao: così facendo non solo tagliano i costi, ma inventano un nuovo prodotto che ancora oggi delizia milioni di appassionati.
Deve passare ancora del tempo però, e non poco, perché quella meraviglia di sapore trovi un nome. Ancora a Torino, nel 1865, a Carnevale un attore travestito da Gianduja, maschera della città, distribuisce ai passanti un dolcetto avvolto nella carta. È il primo cioccolatino della storia ad essere incartato singolarmente: si chiama Givù, ma offerto da Gianduja ci mette un attimo a diventare quello che resterà nel futuro: il Giandujotto. Realizzato a mano, nei primi tempi; poi, nel Novecento, il bivio: restare fedele ai gesti lenti dei maestri torinesi, o farsi strada nelle linee produttive dell’industria? Entrambe le cose. L’erede diretto della tradizione è il metodo a estrusione, che prevede che il composto venga deposto su una piastra senza stampi, lasciando che la sua forma esca guidata dalla mano del pasticciere a guidarla. Il metodo a concaggio, invece, utilizza stampi che modellano i pezzi in serie, tutti uguali.
Nel maggio 2025 la domanda di registrazione del Giandujotto come marchio IGP è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, segnando l’inizio dell’iter per il riconoscimento e la fine di una lunga battaglia legale e commerciale tra il Comitato del Gianduiotto di Torino Igp – formato da circa 40 aziende e artigiani piemontesi – e la multinazionale svizzera Lindt, proprietaria dal 1998 dello storico marchio torinese Caffarel. Nel 2017, il comitato piemontese ha proposto un disciplinare rigido che prevedeva la produzione esclusiva in Piemonte, solo tre ingredienti (nocciole Piemonte Igp, zucchero e cacao minimo), forma tradizionale a prisma triangolare, confezionamento entro 12 ore dal raffreddamento. Gli svizzeri volevano mantenere tra gli ingredienti il latte in polvere nella ricetta, usare meno nocciole e produrre fuori dal Piemonte. Lo scontro è durato anni, con legali e storici coinvolti da entrambe le parti. Alla fine è stato raggiunto un compromesso e seguendo il marchio IGP il consumatore saprà di stare dalla parte di questa lunga storia.