Se fosse un giornale, sarebbe senz’altro “La Voce”. Sì, la voce. Per antonomasia. Quella del calcio raccontato alla tivù, ma anche di tutta un’epoca del nostro Paese sfilata via dagli anni ’70 al nuovo millennio sempre a braccetto con la cronaca sportiva, e che lui ha attraversato col microfono Rai alla bocca e le cuffie in testa. Eloquio elegante, aplomb anglosassone, acrobazie linguistiche che sono ormai leggenda (dal tradizionale incipit «Partiti!» al «Tutto-molto-bello») e quel timbro di voce inconfondibile che vanta più imitatori di Celentano. Se prima di lui, a narrare le gesta azzurre, c’erano stati fior di commentatori come Nicolò Carosio e Nando Martellini, dopo, per intere generazioni di italiani, c’è stato semplicemente Pizzul. Bruno Pizzul. Un volto nazional-popolare che ha cambiato la narrazione pallonara, riversando nel semplice commento di un «gòl» tutta la sua statura intellettuale. Tanto che nella storia del calcio televisivo esiste un prima e un dopo-Pizzul, e ancora oggi, a quasi tre lustri dal suo pensionamento, “ci fosse ancora Pizzul” è un tormentone che non passa mai di moda. Lui però, schivo com’è, da buon friulano, al cospetto dei nostalgici, si schermisce e ripete che «le telecronache non gli mancano affatto», nemmeno in queste settimane con i campionati Europei in pieno corso. D’altronde, anche se il lavoro gli ha dato successo e fama imperitura, nella sua vita c’è sempre stato tanto altro: gli amici, le partite a carte, la bici e una passione mai nascosta per i vini. Anche se al nostro appuntamento in radio, dove tuttora lo chiamano a sciorinare nobili opinioni sull’arte pedatoria, tiene subito a puntualizzare: «No, macché esperto! È la tv che fa passare per esperto chi parla occasionalmente di qualcosa. È il mio caso: una volta m’è capitato di parlare di vini, e da allora sono stato individuato come “un sapiente”. Invece sono semplicemente un curioso». Inevitabile. La sua è una terra di grandi vini.Già, il Collio. Una terra che, come tutto il Friuli, anche nell’enogastronomia riflette il suo essere stata un punto di incrocio tra cultura tedesca, slava e latino-italiana. Ho ancora casa a Cormòns, e con mia moglie ci andiamo una volta al mese. È da lì che sono partito. Prima prendendolo a calci, il pallone. Giusto?Sì, ho iniziato lì come calciatore poi sono andato a giocare al Sud: Catania, Ischia, Taranto. Quindi sono tornato. La mia carriera si era interrotta per un infortunio, ma nel frattempo mi ero laureato in legge e avevo cominciato a insegnare aprendo anche uno studiolo come procuratore legale. Pensavo di essermi ormai sistemato in Friuli, m’ero fatto pure un nome come giocatore di tressette (ride, NdA), quando è arrivata la fortuita opportunità di un concorso Rai per fare un mestiere al quale non avevo mai pensato. Ma poi è arrivato al top, diventando la voce degli azzurri. Qual è la più bella partita dell’Italia che ha mai raccontato?In realtà io mi sono divertito soprattutto prima di fare il telecronista della Nazionale. Fino al 1986 ho avuto il privilegio di commentare le migliori partite nelle grandi competizioni. Il quarto di finale Germania-Inghilterra a Messico ’70, rivincita della chiacchierata finale di 4 anni prima, è forse il match che ricordo con più emozione. Era il primo mondiale che seguivo. Diventare commentatore della nazionale, certo, è un punto di arrivo, ma ci sono anche tantissime pressioni. Come ha fatto a cambiare il linguaggio della cronaca calcistica televisiva?Non c’è stato niente di premeditato. È che fino alla mia epoca, il linguaggio radiofonico-televisivo era paludato e metteva al bando anche gli anglicismi. Una vera sciocchezza. Io sono tornato a dire “gol”. Per il resto, ho travasato nella cronaca termini tratti dal mio bagaglio culturale, e comunque adatti al contesto. Diciamo che i miei studi classici mi hanno aiutato parecchio… Lo sa che almeno 9 italiani su 10 la vorrebbero ancora in telecronaca, vero?Io dico che bisogna voltare pagina. Forse la Rai ha sbagliato a non prendere al mio posto un commentatore e insistere su di lui. Le rotazioni non piacciono alla gente. Certo, rispetto ai miei tempi, oggi c’è più concorrenza e per la Rai prendere quelli bravi non è facile come in passato. Quanto a me, sto bene dove sto. Alla mia età, troppe partite mi farebbero male… Sta dicendo che non le piace più il calcio?No, non è quello. È che è cambiato tantissimo. Un tempo si parlava di “calcio pane e salame”, quello cioè che veniva vissuto in maniera spontanea e senza drammatizzazioni. Lo sport dovrebbe essere così. Invece oggi le componenti extratecniche come il business e la contrapposizione violenta tra i tifosi hanno preso il sopravvento, e questo ha fatto perdere al calcio la capacità di sorridere. In quello di vertice poi, è difficile parlare ancora di sport. Io, almeno, di sportivo vero e proprio, francamente, ci vedo ben poco ormai.