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Alla ricerca dei sapori perduti

 Erbe aromatiche, farina di grano arso e lattume di tonno, il “maiale del mare”. E ancora: fegatini di agnello e mele limoncelle. Sono solo alcuni esempi dei cibi di una volta – quelli della “cucina povera” oggi soppiantata dalle mode e dai piatti comodi e veloci – che evocano ricordi e nostalgia del tempo che fu. Eppure, c’è ancora chi dal passato non vuole smettere di trarre ispirazione. E gusto  Le pagine ingiallite scritte in bella calligrafia e inchiostro scuro, raccontano di tè preparati con le foglie di fragola, zuppe di ortiche, cosce di rana fritte, risotti con le creste di gallo, stracotti d’asino e torte al cacao con sangue di gallina. Quello che oggi sembra quasi un libro di pozioni magiche, altro non è che il quaderno delle ricette della nonna. Tutt’altro che strega, lei. Vero angelo della casa che per mettere insieme ogni giorno il pranzo con la cena, sapeva fare di necessità virtù e utilizzare ciò che la natura le metteva a disposizione di mese in mese nei campi, nell’orto e nel cortile. Era il tempo delle cucine economiche, alimentate a legna e sulle quali c’era sempre qualche pentola a far “pippare” minestre, stracotti e ragù. Era il tempo delle lunghe cotture e di piatti che oggi hanno il buon profumo dei ricordi e della nostalgia di un tempo che fu. Già, perché sono bastate un paio di generazioni per creare il black out, per far sì che quel “tesoretto” tramandato da madre in figlia si fermasse davanti alla comodità di un frigorifero e di un supermercato e alla rapidità di un forno a microonde. Ingredienti, ricette e, ancora prima di queste, le abitudini alimentari sono profondamente cambiati insieme a una società in corsa verso una sempre maggiore velocità del cucinare e del consumare. E anche del produrre, a favore di varietà orticole e di razze animali maggiormente produttive. Così, in una manciata di decenni le ricette di famiglia sono diventate una sorta di archeologia alimentare. Perché anche a volerle ripetere, oggi ci si scontra con l’impossibilità di reperire gli ingredienti giusti: di asini non ce ne sono quasi più, di rane neanche a parlarne! E anche gli strumenti di cottura tradizionali, come le casseruole in terracotta o i testi in ghisa, trovano sempre meno posto nelle cucine moderne che brillano di acciaio inox. Eppure, c’è ancora chi dal passato non vuole smettere di trarre ispirazione. E non per una questione di risparmio.   Dai fiori di burro al grano arsoA Ronco Biellese, in Piemonte, ad esempio, c’è un giardino che profuma di un centinaio di essenze, erbe e fiori. È quello di Bianca Rosa Zumaglini, ultraottantenne autrice di molti libri di cultura alimentare e ricette tradizionali (Graphot Editrice di Torino) ma soprattutto eccelsa intenditrice delle erbe spontanee e aromatiche per uso gastronomico. «Ho imparato a conoscerle parlando con la gente e cercandole in collina e in montagna. Ed è dove ci sono solo le malghe che ho imparato di più, perché in alta montagna le persone devono davvero vivere con quello che hanno», racconta la signora Bianca. Dai malgari ha imparato a riconoscere le erbe più insolite, come il trifoglio alpino, che cresce sopra i mille metri di altitudine e i cui fiori contengono un grasso dal sapore simile al burro d’alpe. «Per questo li chiamano anche i fiori del burro», spiega Bianca, «la loro fioritura è intensa e dura circa un mese in estate. I malgari li raccoglievano e quando tornavano alla baita, la sera, li usavano per cucinare. Per friggere un uovo o per fare la fonduta, per esempio, mettevano nella pentola una bella manciata di questi petali rosa, che sul calore cedevano una sostanza che diventava grasso di cottura e condimento dei cibi». Era un modo per fare economia e non consumare il burro vero, che andava venduto in cambio di denaro. Dai fiori di burro delle montagne piemontesi al grano “arso” della Puglia si arriva praticando la stessa arte, quella dell’arrangiarsi. Infatti, in un tempo non lontano, nel cosiddetto “granaio d’Italia” anche le spighe che rimanevano nei campi dopo la mietitura venivano raccolte. E i poveri tra i più poveri andavano a recuperare persino i chicchi di grano bruciato dopo che le stoppie venivano incendiate per preparare il terreno alla coltura successiva. «Li macinavano e ne ricavavano una farina nera e fibrosa, che miscelavano con quel poco di farina bianca che avevano a disposizione per renderla meno sgradevole al palato e con questa facevano pagnotte, orecchiette e maccheroni», racconta Peppe Zullo, cuoco-custode degli antichi sapori a Orsara di Puglia (Foggia). Oppure, la scambiavano: un chilo di farina di grano arso per un paio d’etti scarsi di costossima farina bianca. Oggi, il grano arso è prodotto in piccole quantità per gli appassionati gourmet, ma è diventato altra cosa rispetto all’antica farina dei contadini. I chicchi non vengono più bruciati (la combustione è vietata dalla legge perché sprigiona sostanze dannose per la salute), ma tostati quel che basta per conferire alla farina un aroma particolare, che ricorda il caffè, l’orzo e la nocciola. Da cibo della miseria a prodotto di nicchia, la farina di grano arso è oggi tra le più care sul mercato, insieme a quella di Kamut, una varietà di grano antico diventata marchio statunitense.   La cucina povera che vien dal mareLa storia della farina di grano arso è comune a quella di tanti prodotti che un tempo erano consumati solo dai più indigenti, mentre oggi sono diventati veri e propri must gastronomici. Due esempi che vengono dal mare: la bottarga di tonno di Sicilia e Sardegna e la colatura di alici della Costiera Amalfitana. La prima è nata dalla necessità di utilizzare a scopo alimentare gli scarti della lavorazione del tonno, a ragion veduta definito il “maiale del mare”, perché del suo corpo non si buttava via niente. Infatti, mentre la carne fresca era destinata a un remunerativo commercio, le viscere di questi grandi pesci del Mediterraneo venivano regalate ai poveri pescatori, che trovarono il modo per conservare le uova degli esemplari femmina. Salandole ed essiccandole, le trasformavano in un ingrediente dal sapore molto intenso, da consumare a lamelle o grattugiato come si fa con il Parmigiano. Allo stesso modo, dalle viscere dei pesci maschi hanno imparato a ricavare quello che in Sicilia chiamano il lattume e in Sardegna figatello, che altro non è che lo sperma sottoposto allo stesso procedimento di trasformazione delle uova. La colatura di alici, invece, è il liquido che si produce con la maturazione e la pressione delle alici fresche poste sotto sale in grandi contenitori, una volta private di testa e interiora. Oggi la colatura è prodotta con grandi attenzioni a Cetara (Salerno), ma è da secoli che
è presente sulle tavole dei poveri pescatori, dove con il suo sapore intenso rappresentava un sostitutivo
del pesce fresco. Oggi anche il grande cuoco Gualtiero Marchesi la usa nel suo ristorante, con raffinata semplicità: sugli spaghetti.   Come ti riprendo il “quinto quarto”Non solo dal pesce ma anche dalla macellazione degli animali, un tempo non era vergogna recuperare gli scarti, ossia quel “quinto quarto” che nel linguaggio dei macellai indica le parti che hanno poco valore sul mercato, come le interiora, le teste o le code degli animali. I ricettari regionali della nostra tradizione italiana sono ricchi di ricette per cucinare queste parti: dal Fegato alla Veneziana alla romana Coda al- la vaccinara, dal Pane ca’ meusa (con la milza) siciliano a quello con il lampredotto fiorentino fino alle cervella che entrano a pieno titolo nel ripieno della Cima alla Genovese. Oggi, che a forza di fare la spesa all’ipermercato si tende a pensare che i polli siano fatti di sole cosce e i manzi di filetti e costate, queste parti finiscono sempre più raramente sulla nostra tavola e sono usate soprattutto per l’alimentazione animale. Eppure, sapientemente lavorate, anche questi tagli poveri hanno una loro valenza tanto a livello nutritivo quanto gustativo. «Il problema è che i cuochi oggi non imparano quasi più a lavorarli, perché è più comodo aspettare il camion del fornitore che consegna la carne già porzionata», sottolinea Peppe Zullo, che nel suo ristorante ancora propone con successo gustosi piatti della cultura povera, come i Fegatini di agnello al profumo di alloro, e le carni delle locali vacche di razza podolica. «Sono animali che fanno movimento e che quindi hanno carne dura, che va frollata e lavorata a lungo, ma per fortuna da noi ci sono ancora macellai che hanno voglia di fare davvero il loro lavoro. Cosa che non avviene più in tante grandi città, dove anche nei migliori ristoranti la carne facilmente arriva già affettata da Argentina, Scozia ed Europa dell’est», conclude lo chef.   La rivincita dei salumi e degli ortaggiLa rapida scomparsa dei vecchi modi di vivere ha creato tuttavia un’immensa nostalgia del passato. Ed ecco studenti universitari che partecipano a lezioni sul pane fatto in casa e giovani professionisti che per hobby tornano a mettere le mani nella terra come i loro nonni e imparano a fare l’orto sul balcone. Mentre i più temerari si cimentano persino nell’arte del trasformare il maiale in salumi. «È un fenomeno in forte crescita, che non credo sia dovuto solo alla crisi economica», precisa Massimo Spigaroli, cuoco e famoso norcino che nella sua azienda agricola di Polesine Parmense, oltre a produrre uno strepitoso Culatello, organizza anche corsi per imparare a fare le conserve di ortaggi e i salumi, proprio come una volta. «Il ritorno alla tr dizione da parte dei giovani è il nostro futuro, perché senza conoscere la storia non si va da nessuna parte – continua Spigaroli – la mia ricerca dei sapori perduti è iniziata nel 2001, quando sono stato chiamato a realizzare un menù “verdiano” per celebrare i cent’anni dalla morte del grande compositore parmense e mi sono reso conto di quanto gli ingredienti fossero cambiati nell’arco di un secolo. Per esempio, i maiali erano neri e piccoli e anche i capponi erano di una razza diversa, le carote erano più pallide e le verze più piccole e saporite. Così ho deciso di tornare a produrre tutte queste cose nella mia azienda. Ho cercato il maiale nero dei tempi di Verdi e l’ho trovato sull’appennino tosco-emiliano e così ho fatto per tanti altri prodotti ora presenti della mia azienda agricola». Prima gli ingredienti e poi le ricette che oggi Massimo propone nel suo raffinato ristorante (Antica Corte Pallavicina – Strada del Palazzo Due Torri 3, Polesine Parmense, Tel. 0524936539, www.acpallavicina.com ) eseguendole con grande fedeltà alla tradizione, anche per quanto riguarda le tecniche di cottura. «Tipiche di questa mia terra che confina con l’acqua del Po sono le cotture nella creta e nella sabbia – racconta ancora lo chef – e un tempo quando d’inverno i boscaioli incontravano i pescatori era una gran festa. I primi portavano legna e vino, i secondi il pesce: si faceva il fuoco in una buca scavata nella sabbia e si cuoceva all’interno il pesce, proteggendo le carni con uno strato di frasche». Preparazioni che hanno il gusto della semplicità e che sanno emozionare. E che grazie al lavoro di tanti “cuochi-custodi” come Bianca Rosa, Peppe e Massimo stanno tornando a nuova vita in molte regioni italiane. Bisogna saper distinguere però. Perché l’unica cosa davvero tipica in tanti menù, sagre e “ritrovate” specialità alimentari è… la furbizia di chi le vende!  

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